Una rosa è una rosa è una rosa,
scriveva Geltrude Stein. Un albero di Natale, invece, è un punto di domanda a
cui sono appesi, come palline e lucine colorate, tutti o quasi i maggiori
dilemmi etici, estetici e politici del nostro tempo. Ogni anno, quando il 25
dicembre si avvicina, miliardi di esseri umani si trovano davanti a una scelta
che valutano distrattamente, adagiandosi sull’abitudine, perché altrimenti
dovrebbero fermarsi a pensare, rischiando di rimanere paralizzati di fronte
alle implicazioni morali della loro scelta e a mille domande sul chi siamo
davvero e su quale sia il nostro senso nel mondo. Per questo c’è chi decide di
non farlo proprio l’albero, di chiamarsi fuori, evitando le compromissioni e le
colpe che la vita e la storia impongono. E’ una decisione ineccepibile, ma non
è una decisione: è una rinuncia. Per quelli che nel mondo vogliono starci, le
alternative sono due: scegliere l’albero finto-anche nelle varianti sagoma
cartonata, soprammobile o albero farlocco tipo ficus benjamin addobbato di lucine e festoni – oppure
comprare un albero vero, possibilità che contempla due opzioni: con le radici o
senza radici. L’irruzione di un albero di Natale reale – O tannenbaum! – all’interno di un appartamento ha in sé un che di
selvaggio. Nasconde la memoria degli antichi culti nordici di rinascita, la
freschezza della primavera in Scandinavia, il profumo degli abeti celtici
vichinghi illuminati dalle fiammelle dei morti, oltre all’eco dell’albero della
vita della Genesi naturalmente. Per noi moderni, invece, simboleggia la
ricomparsa e la rinascita della natura e della vita in un mondo neutralizzato
dalla merce. L’atto di acquistarlo implica, però, paradossalmente,
l’accettazione della mercificazione dispiegata come unica possibilità di
accedere di nuovo alla vita. Significa piegare anche la natura all’immensa
forza che trasforma ogni cosa – perfino la salute e la gioia di e piccini – in
un’occasione di consumo. Il problema, insomma, è ancora storico, è l’alternativa
tra accettare e rifiutare il proprio tempo. Sfortunatamente la storia non è una
variabile soggettiva che dipende dai gusti e dagli orientamenti ideologici, è
l’acqua in cui nuotano i pesco rossi che siamo e non c’è modo di tenerla
lontana da noi e negarne l’esistenza. Riconoscere la sua realtà significa
riconoscere la propria. La scelta dell’albero autentico porta a due strade,
ugualmente irte di controindicazioni: quello senza radici è una soluzione
pratica, ma è già morto, non ha alcuna possibilità di risorgere, dettaglio che
contraddice la simbolica irruzione della natura viva e scalciante nell’universo
artificiale della nostra esistenza; l’albero con le radici invece, trascorrerà
un mese in un ambiente innaturale, afflitto da caloriferi a palla, umiliato da
festoni e palline come uno Yorkshire tempestato di fiocchi e bigodini a una
mostra canina, Si seccherà, perderà milioni di aghi che dovranno essere
spazzati e raccolti, e se anche dovesse resistere fino al 7 gennaio – quando
anche la Befana se ne sarà andata via – dovrà essere caricato nel bagagliaio e
riportati in un vivaio oppure all’Ikea dove ogn anno si organizza una
deportazione in massa di abeti ammaestrati di seconda mano al Parco del Po
Vercellese-Alessandrino e al Parco Nazionale delle Cinque Terre. Non è un bel
vivere comunque, anche perché le possibilità di sopravvivenza rimangono
scarsissime. (..). La scelta dell’albero di plasica, al contrario non implica
la morte di un altro essere vivente e, quindi, la colpa di chi l’ha favorita.
Però costituisce una resa completa all’inorganico, la sostituzione del vivo con
l’artificiale. Anche tralasciando ogni interrogativo e calcolo sui metri cubi
di gas e petrolio necessari a produrre l’albero in questione, la scelta
dell’artificiale pone un problema estetico invalicabile. (..). Rappresenta
un’imitazione non riuscita della vita, di cui si accetta di poter mettere in
scena solo il simulacro trash. Il Natale come celebrazione della nascita si
ribalta cioè in celebrazione della
morte, in tutte le sue varianti: l’agonia dell’albero con radici, il cadavere
che è l’albero reciso e l’inanimato se si sceglie quello di plastica. Ogni
alternativa mortifica la festa della nascita – non della resurrezione, che
avviene a Pasqua, e che implica comunque la morte – ma del venire al mondo,
della possibilità dell’irruzione di una vita nuova nell’esistenza imbalsamata
che tutti viviamo. Il consumismo è la religione dell’inorganico e il Natale è
la sua messa. A chi vive nella storia, e in questo tempo, non resta che prenderne
atto, accettando che ogni nostra decisione – perfno quella di non farlo per
niente, il benedetto albero di Natale – finirà per essere una celebrazione
della morte dentro la vita e della vita dentro la morte, sempre e unicamente
attraverso la potenza magica della merce, che sa propagarsi, ma non dà mai
frutti vivi. Oppure si può fare il presepe.
Giacomo Papi
– Che La Festa Cominci – Il Venerdì di Repubblica – 9 Dicembre 2016
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