Sempre Impeccabilmente
Truccata, con i
guanti bianchi e il cappellino di paglia per l’estate e di panno per l’inverno
sopra i ricci neri quando usciva di casa, Ruth Gruber era il ritratto della
perfetta ragazza ebrea di buona famiglia, nata e cresciuta a Williamsburg, il
quartiere di Brooklyn che gli emigrati dall’Europa Occidentale come i suoi
genitori chiamavano lo shtetl, il villaggio, in lingua yiddish. Ruth era una
bambina e poi una ragazza speciale, dotata di un talento che ogni insegnante
aveva notato: un’eccezionale capacità di scrivere. Ad appena diciannove anni
ricevette e accettò una borsa di studio per un dottorato dalla Università di
Colonia, in Germania. Era il 1931 e quegli anni nella Germania dove Hitler
aveva cominciato la sua ascesa, l’avrebbero trasportata dodici anni dopo sul
ponte oscurato di una nave nell’Oceano Atlantico infestato dagli U-Boot
tedeschi. Ci sarebbe arrivata passando dal ministero dell’Interno americano a
Washington, dove la sua conoscenza delle
lingue, la sua capacità di scrivere anche per quotidiani importanti, l’avevano
fatta reclutare. Il ministro, Harold Ickes, la scelse per andare in una Napoli
di fine ’43 liberata dagli Alleati e accompagnare nel viaggio per mare migliaia
di profughi ebrei raccolti dai soldati americani nella loro marcia attraverso l’Europa
occupata. Per calmare la madre, che si era fiondata a Washington terrorizzata,
fu promossa su due piedi al grado temporaneo di generale perché almeno non fosse
fucilata come spia, ma internata come prigioniero di guerra, se fosse stata catturata.
Ruth arrivò a Napoli vestita come sempre: cappello di paglia rosso, camicetta
azzurra e ampia gonna plissettata, che il comandante inorridito la invitò a
cambiare prima di arrampicarsi sulla fiancata della nave sotto gi occhi di
reduci che non avevano visto una donna da mesi. Ma in valigia Ruth aveva solo
gonne, e fu un marinaio a prestarle un paio di calzoni per l’arrampicata e la
traversata. A luci spente, attraverso il Mediterraneo e l’Atlantico vero New
York, il “generale” Gruber, la dottoressa, la giornalista divenne, per più di
mille ra vecchi, bambine, donne che avevano perduto tutto nella guerra,
“Mamma”, colei che cantava la ninna nanna in yiddish ai più piccoli e insegnava
le canzoni americane in voga agli adulti, perché imparassero un po’ d’inglese.
Quando finalmente sbarcarono,la missione di “MammaRuth” cambiò. Tornò al lavoro
di inviata speciale e fotografa. Fu il primo giornalista, maschio o femmina,
ammesso a visitare un campo di prigionieri politici in Urss, nei gulag, e a
seguire una spedizione nell’Artico sovietico. Dalle cose della Palestina, non
ancora Israele, vide respingere quattromila profughi ebrei, pubblicando un
resoconto che sarebbe diventato la base per il romanzo e poi per il film Exodus. Testimoniò al processo di
Norimberga contro i gerarchi nazisti per inchiodarli ai loro crimini. Ma il
grande successo della sua vita, tra libri, premi, onori e riconoscimenti e mini
serie televisive dedicate al suo lavoro, fu l’aver convinto il presidente
Truman a non deportare quei profughi che lei aveva assistito e che, in base
alle leggi vigenti allora,dovevano essere riportati dove erano nati, spesso nel
nulla di villaggi e famiglie che non esistevano più. Ruth Gruber, la bambina di
Broklyn che sapeva scrivere bene riuscì a convincere Truman a concedere asilo
ai profughi. E’ morta il mese scorso, in novembre, a 105
anni, nel suo appartamento di Manhattan, divenuto un piccolo museo di ricordi,
dalle bambole di pezza regalate dalle bambine per ringraziarla agli attestati
solenni di governi e associazioni umanitarie. Non ci sarà più una “MammaRuth”
per essere la lobby di chi non ha lobby, quando ce ne sarebbe tanto bisogno.
Vittorio Zucconi – Opinioni – Donna di Repubblica – 10
Dicembre 2016
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