Dai Suoi Pensieri comprendo bene e condivido il fatto
che noi esseri umani, al pari di qualsiasi altro essere vivente su questa
terra, siamo organismi con il solo fine di essere semplicemente funzionari
della specie. Provo umilmente a esprimere la domanda. Osservando l’evoluzione
delle cose dall’origine della terra nel corso dei millenni, possiamo intuire
come ogni cosa che sia apparsa e poi estinta nel proprio ciclo di esistenza sia
in qualche modo “tornata utile” o “servita” al proseguo e all’evoluzione della
specie stessa, nei termini di “adattamento” o “aggiustamento” all’ambiente
circostante. Guardando poi all’evoluzione dell’uomo, comprendo a sufficienza i
molteplici cambiamenti di caratteristiche e peculiarità, non di meno capisco
l’utilità del morire al fine di completare il ciclo della vita al pari di tutti
gli altri animali,esseri o cose viventi. Quello che onestamente non riesco a
comprendere in questo scenario della Natura, è l’utilità per l’uomo di avere la
“coscienza di sé” e di tutte le cose che ci accadono. Qual è l’utilità del
fatto che l’uomo si renda conto di tutto quello che gli accade al mero fine
della prosecuzione della specie? Che valore aggunto o utilità può avere per la
Natura il fatto che l’uomo soffra profondamente, ami profondamente, scriva le
sue memorie, crei dei musei, pianga ecc? Immagino che la risposta sia “ nessuna
utilità”. Allora a quale fine ultimo si è formata la coscienza di sé nel corso
dell’evoluzione? Riccardo Boccardi www.riccardboccardi.com
Siccome l’Uomo promuove le sue azioni in vista di un
fine, applica questo criterio anche alla natura le cui espressioni, dal mondo
vegetale a quello animale e a quello umano, avvengono perché avvengono, senza
ragione e senza perché, semplicemente perché ci sono le condizioni per il loro
accadere senza che ci sia sottesa alcuna finalità. Non ha quindi senso
chiedersi quale utilità può avere, in ordine alla prosecuzione della specie, il
fatto che l’uomo possieda una “coscienza di sé” e si renda conto di tutto
quello che gli accade. La possiede
perché nell’evoluzione ci sono state le condizioni per la sua formazione. E
nella coscienza di sé la cultura greca antica vide l’essenza tragica della condizione
umana, così ben descritta dalla sentenza di Sileno che, a re Mida che gli
chiedeva quale fosse la cosa migliore e più desiderabile per l’uomo, rispose:
“Stirpe miserabile ed effimera, figlio del caso e della pena, perché mi
costringi a dirti ciò che per te è vantaggioso non sentire? Il meglio è per te
assolutamente irraggiungibile: non esser nati, non essere, essere niente. Ma la
cosa in secondo luogo migliore per te è morire presto”. Perché? Perché a causa
della coscienza l’uomo per vivere ha bisogno di costruire un senso in vista
della morte che è l’implosione di ogni senso. Questa dimensione tragica è
l’elemento costitutivo dell’uomo, che la coscienza di sé ha costruito come un
Io aperto al mondo per poi ricordargli che è aperto per nulla.(..). Se vogliamo
trovare una differenza tra l’uomo e l’animale, cerchiamola pure nella
coscienza, ma non traiamone un eccessivo vanto, perché se è vero che la
coscienza produce tutte quelle belle cose che lei elenca (scienza, poesia,
arte, passioni, dolori, amori), queste belle cose sono i tentativi disperati
messi in atto dall’uomo per sfuggire a quello sfondo tragico che lo prevede in
balia della specie per le esigenze della sua economia (nascita, crescita,
procreazione e morte) e non per la realizzazione degli umani progetti e dei
suoi incantevoli sogni. Lei non è mai
stato sfiorato dal sospetto che le religioni che promettono una vita
ultraterrena abbiano avuto successo proprio perché con quella promessa,
alimentata da quelle che gli antichi Greci chiamavano “cieche speranze (Typhlàs elpidas)”, oltrepassavano la
dimensione tragica messa bene in luce dalla sapienza greca, e oscurata dalle
religioni della promessa, per evitare che l’umanità perisse davanti alla
visione lucida della tragicità del proprio destino? Un inganno, questo sì utile
e necessario, perché l’umanità potesse continuare a vivere. E questo perché, è
sempre Nietzsche a ricordarcelo: “Tutto ciò che è profondo ama la maschera.
Dammi, ti prego…una maschera ancora! Una seconda maschera”.
umbertogalimberti@repubblica.it - Donna di Repubblica – 17 Dicembre 2016 -
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