Forse la cura per una delle più
diffuse malattie della modernità, il diabete di tipo 2, arriverà dalla più
remota preistoria. O meglio dal veleno di un animale fra i più strani al mondo,
rimasto pressoché immutato da 170 milioni di anni: l’ornitorinco. Il diabete
infatti, com’è noto, altera il meccanismo che tiene ai giusti livelli il
glucosio nel sangue, la “benzina” delle cellule. Questa regolazione è affidata
a vari ormoni. Il principale è l’insulina prodotta dal pancreas che stimola
l’assorbimento del glucosio in fegato e muscoli. Un altro è il peptide
simil-glucagone, Glp-1, prodotto nell’intestino, che induce il rilascio della
stessa insulina per contrastare i picchi di glucosio dopo i pasti. Nel diabete
di tipo 2, tipico degli obesi e degli anziani, l’insulina viene prodotta
normalmente, ma l’organismo diventa sempre meno sensibile alla sua azione e ne
richiede più del normale. Un surplus di Glp-1 somministrato come farmaco
potrebbe aumentare la produzione di insulina fino a livelli sufficienti.
Purtroppo, però, il Glp-1 prodotto dai mammiferi è molto instabile: entrato nel
sangue, viene distrutto da enzimi specifici nel giro di uno o due minuti, un
tempo troppo breve perché possa servire come farmaco. E qui entra in campo
l’ornitorinco. Il genetista Frank Grutznr, dell’Università di Adelaide, e la
biochimica Briony Fprbes, della Flinders University, anche questa di Adelaide,
hanno infatti scoperto che nell’ornitorinco, il Glp-1 è molto più stabile del
normale. La ragione di questa particolarità sta proprio nel suo essere una
sorta di “fossile vivente”, l’ultima testimonianza, insieme al suo parente
echidna, di come erano fatti i mammiferi 170 milioni di anni fa, quando cominciarono
a differenziarsi dai rettili. L’ornitorinco (Ornithorhynchus anatinus), che è
lungo fino a 40 centimetri e vive nei corsi d’acqua dell’Australia orientale, è
classificato fra i mammiferi solo per due ragioni: è coperto di pelo e le
femmine allattano i piccoli. Queste non hanno però i capezzoli, perciò il loro
latte esce dai pori della pelle del ventre e impregna i peli, a cui si
attaccano i piccoli. Per il resto questo animale appare un misto fra una
papera, un coccodrillo e una vipera: depone le n e ha un becco da anatra, le sue
zampe sono poste esternamente al corpo,come nei rettili, ed è uno dei pochi
mammiferi dotati di veleno (gli altri sono l’echidna, il selenodonte di Cuba,
alcuni toporagni e il pipistrello vampiro). Ed è proprio questo suo veleno,
conservato in uno sperone e usato dai maschi per combattersi nella stagione
degli amori, a essere preso in considerazione per una possibile terapia per il
diabete. “L’ornitorinco produce un tipo di Glp-1 stabile” dice Grutzner “perché
non lo usa solo per regolare il glucosio nel sangue, ma lo immagazzina anche
nelle ghiandole velenifere. Grazie a questo ormone il veleno, oltre a un forte
dolore, provoca un calo, inducendo debolezza nell’avversario e spingendolo ad
abbandonare la contesa per la femmina. Se riuscissimo a riprodurre il Glp-1
stabile dell’ornitorinco, potremmo usarlo come antiglicemico nei diabetici”. In
attesa della nuova terapia, però, resta l’impressione che tentare di avvelenare
un rivale in amore sa una misura un po’ estrema, anche per un ornitorinco…”Non
più che combattere a cornate, morsi o pugni, come accade nelle tante altre
specie dove i maschi competono per le femmine” minimizza il biologo Josh
Griffiths, del centro ricerca ambientale australiano Cesar. “In realtà in
natura l’ornitorinco più debole si allontana prima di assorbire troppo veleno.
Solo in cattività è successo che uno dei due combattenti, non potendo scappare,
morisse avvelenato”. Ma come può aver fatto un mammifero così primitivo a
sottrarsi all’evoluzione, rimanendo immutato per intere ere geologiche?
“L’Australia è l’unico luogo al mondo dove, fino a 50 mila anni fa, quando
arrivarono uomini e dingo, non esistevano mammiferi moderni, dotati di
placenta, a parte i pipistrelli” spiega Griffiths. “E ancora oggi nel nostro
Paese non ci sono specie, come castori, nutrie o lontre, che possano entrare in
competizione con l’ornitorinco nell’ambiente fluviale in cui vive. Poi, anche
se ci fossero, non so se potrebbero batterlo: si è adattao così bene a
quell’ambiente da aver persino sviluppato nel “becco” la percezione dei campi
elettrici, così da poter scovare nel fango del fondo gli animaletti di cui si
nutre. A differenza dei marsupiali australiani, vivendo gran parte del tempo in
acqua, non ha invece potuto evolvere una tasca dove far crescere i piccoli, e
ha così continuato a deporre le uova, che comunque la madre tiene molto a lungo
nel corpo, covandole poi solo per una decina di giorni”. Finora, a differenza
di tanti altri animali australiani, l’ornitorinco non sembra aver neppure
sofferto troppo dell’invadenza umana. “Occupa tutte le aree che abitava secoli
fa, per cui, ufficialmente, non è considerato in pericolo. In realtà però è
così difficile da vedere e studiare, che non sappiamo se le sue popolazioni
siano stabili o in declino. E temiamo che, vista la crescente aridità da
cambiamento climatico, e l’aumento nell’uso dell’acqua dei fiumi, dopo 170
milioni di anni, anche questa incredibile specie animale possa presto
cominciare a trovarsi in difficoltà”.
Alex Saragosa – Scienze – Il Venerdì di Repubblica – 23
Dicembre 2016 -
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