Sento l’esigenza di esplicitare la combinata egemonia che si è consolidata
nei nostri licei, rappresentata da una micidiale mescolanza di compulsione al
monitoraggio e alla sorveglianza su ogni attività, febbre di uniformare tendenze e attitudini mentali, pedagogia tesa
a eliminare la trama delle divergenze, in quella macabra danza di parole
ricorrenti come “omogeneo”, “uniforme”, “standard”, a volte “obiettivi minimi
uniformi”. Ma una sventurata scuola che s’intestardisce a misurare e
classificare tutto, toglie il respiro. Se monitora tutto, uccide libertà e
spirito critico, creando una gigantesca polleria d’allevamento, regolata da
griglie valutative sadiche, comiche e prive d’oggetto, che rivelano solo una
completa incomprensione della psiche umana, perché il sale della vita è
rappresentato dalle differenze, dalla ricchezza delle facoltà umane e dalla
specificità degli individui. Fortissimo è il mio disagio a scuola, dove tutto
viene sorvegliato, uniformato, standardizzato. La libertà personale e critica
non viene curata. I contenuti sono parvenze per alimentare una furia tremenda di controllo e manipolazione. L’informatica
diventa un rumore di fondo , le competenze diventano funzioni, la padronanza
sulle condizioni di vita è persa. Mi sento spaesato; non si discute più di
storia e di filosofia, di matematica e scienze, di latino, di greco. Quando se
ne discute, scatta subito la furia coatta di monitorare, misurare, creare
moduli. Andremo a sbattere, speriamo non in modo catastrofico.
Luigi Vavalà l.vavala@me.com
Caro Professore, lei dice con estrema chiarezza l’abisso in cui va
precipitando la nostra scuola che era una delle migliori al mondo, ma che
pessimi pedagogisti, affascinati dal cognitivismo imperante d’importazione
anglo-americana, persuadendo i ministri abbastanza incompetenti a loro volta
affascinati dalla modernità che identificano con i modelli suddetti, stanno
semplicemente distruggendo la “soggettività dei ragazzi” a favore
dell’oggettività delle prestazioni”. Qui a Milano so di licei classici dove non
si fanno più temi, né in classe né a casa. Così della soggettività di ciascun
alunno non si sa nulla e tanto meno della sua condizione emotiva così
importante per la sua crescita. Al posto del tema la comprensione di un testo
dove, a ogni parola incompresa, si scala un voto. Le interrogazioni sono
sostituite da verifiche scritte, perché un interrogazione è difficile da
valutare, c’è in gioco la soggettività dell’alunno, e allora è meglio una prova
scritta, dove gli errori sono lì belli evidenti, mentre in un’interrogazione uno può
correggerli, o approssimarsi al vero. Risultato: gli studenti, che già hanno un
vocabolario miserabile, non hanno neppure l’occasione di metterlo alla prova in
pubblico, e di poterlo arricchire ascoltando i compagni di classe. So anche che
se ti capita un professore di matematica che non abbia finito il programma, il
professore che subentra l’anno successivo, non si fa carico delle lacune dell’anno
precedente, perché gli studenti a fine anno hanno firmato come svolto un
programma che non era stato svolto, E che deve fare uno studente quando
l’ordine burocratico gli fa firmare i programmi? Al nuovo professore non
interessano le lacune degli studenti, ma solo essere in pari con le altre
classi nello svolgimento del programma. Già nel 1945 Renè Guénon non
individuava come tratto tipico dell’Occidente il suo avviarsi verso il regno
della quantità (Il regno della quantità e
i segni dei tempi, Adelphi), perché la quantità è misurabile, mentre la
qualità soggettiva che caratterizza ciascuno di noi, no. E questo non accade
solo nella scuola, ma anche nelle diagnosi e nelle cure psichiatriche, che non
avvengono più incontrando e parlando con
le persone, ma applicando protocolli ricavati da statistiche (vedi la quinta
edizione del Manuale diagnostico e
statistico messo a punto nel 2013 dall’American Psychiatric Association).
Se ne deduce che per educare i giovani e per curare chi soffre di disturbi psichici
prendere in esame e magari entrare in contatto con la “soggettività”
dell’alunno o del disagiato psichico non serve, oppure è troppo difficile,
oppure, ma forse soprattutto, non
consente di pervenire a una “valutazione oggettiva” dell’alunno o del paziente
in questione, come invece se ci si limita a valutare le “prestazioni” del primo
o le residue competenze abilità del paziente. In una parola l’uomo non conta
più nulla, perché non si presta a una valutazione oggettiva e quantitativa. Lo
dicevano già nel secolo scorso Spengler, e poi Heidegger, Jaspers, Gunter
Anders, rimasti inascoltati, nonostante al loro tempo la tecnica, che prende in
considerazione solo oggettività e quantità, non fosse ancora così egemone come
è oggi e come sarà sempre di più. Alla scuola “umanistica”, qui intesa come
formazione dell’uomo, il funerale è già stato fatto. E nessuno se ne è accorto.
umertogalimberti@repubblica.it
- Donna di Repubblica – 10 Dicembre 2016
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