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giovedì 8 dicembre 2016

Lo Sahe: I Bambini di Aleppo cuciono le scarpe in Turchia...



GAZIANTEP. Mani che si muovono sicure e veloci, nella penombra di scantinati squallidi alla periferia di Gaziantep, nel sud-est della Turchia. Mani piccole, però, troppo piccole, che tagliano, cuciono e incollano in fretta, da mattina a sera. E’ triste destino riservato ai figli di Aleppo,  sopravvissuti ai bombardamenti aerei dei russi e del regime, fuggiti poi miracolosamente in Turchia e costretti oggi a lavorare per aiutare la famiglia. “Mi sveglio alle sette, tutte le mattine” racconta Hussein, per nulla intimorito dalla telecamera, “ e dopo aver mangiato qualcosa vengo qui a guadagnarmi il pane. Fino alle sette di sera. E’ così tutti i giorni. Ma sono contento,  perché guadagno 50 lire turche a settimana. Faccio contenta mia madre e mi resta anche qualche spicciolo”.  Dieci ore di lavoro per sessanta euro al mese. Hussein, che ha solo tredici anni ma quattro fratelli e una mamma vedova da aiutare, è fiero di poter lavorare in questo piccolo laboratorio in cui si producono tomaie per le scarpe. “Ho perso mio padre in guerra” ci dice “ed è per questo che io e mio fratello dobbiamo lavorare. Mia madre da sola non ce la fa. Siamo scappati 6 mesi fa perché nel mio villaggio sono arrivati quelli dell’Isis. E da allora sono cominciati i bombardamenti”. Mentre lui parla, gli altri ragazzi attorno sorridono, incuriositi, ma continuano a lavorare. Sono una decina qui i minori: i più grandi stanno alle macchine da cucire e ritagliano; i più piccoli, di 9, anche 8 anni, impilano invece  i pezzi già pronti oppure, da bravi apprendisti, danno una mano come possono agli adulti nei lavori più complicati. In tutto una trentina di operai, ammassati in un locale maleodorante dove si lavora senza sosta, in silenzio, con solo qualche ventilatore che prova a smuovere la cappa dell’umidità per dare  un  di sollievo. Il padrone è un siriano ed ha  accettato di buon grado di lasciar entrare le nostre telecamere. “Lo so anch’io”, ci spiega “che sarebbe meglio mandare i ragazzi a scuola.  Ma è un lusso che molte famiglie siriane non si possono permettere. Se riusciamo a sopravvivere, qui in Turchia, è perché ci diamo una mano fra di noi, E io è così che faccio la mia parte”. Provo a obiettare qualcosa ma la sua risposta è pronta: “ Io non sfrutto nessuno. Penso semmai ad aiutare la mia comunità. Conosco le famiglie di tutti questi ragazzi. E le assicuro che mi sono tutte grate per quello che faccio. (..). In Turchia il lavoro minorile è un segreto di Pulcinella. Tutti sanno che la piaga c’è ma nessuno si si scandalizza più di tanto. Le ultime statistiche nazionali risalgono al 2014 e parlano di un milione di minori occupati in attività lavorative, su 75 milioni di abitanti. Un rapporto Onu del 2015 specifica poi che in Turchia lavora il 5,9 per cento dei minori fra i 5 e i 14 anni, nonostante la legge proibisca il lavoro minorile fino ai 15 anni, 18 per i lavori più pericolosi. (..). Quello che le denunce però non dicono è il vero scandalo è la guerra in Siria. E che il lavoro minorile fra i rifugiati è solo un effetto, uno dei tanti. “Ci sono ormai  più di tre milioni di siriani rifugiati in Turchia” ci dice Mahmoud Musa, un insegnante di Idlib che vive oggi in un campo profughi a Kilis, vicino la frontiera”. “E fra loro molte vedove e minori non accompagnati che non ricevono alcuna assistenza e sono perciò costretti ad arrangiarsi.  Il lavoro minorile è una vergogna, sì, ma non c’è alternativa oggi, perché aiuta a sopravvivere. “Per togliere i minori siriani dalle strade servono scuole e centro di formazione” aggiunge Mahmoud Dahi.” Solo così si potrà evitare la schiavitù del lavoro minorile”. Mahmoud viveva in Germania e da quando è scoppiata la guerra ha lasciato tutto per poter dare una mano ai suoi connazionali rifugiati in Turchia. A Kilis ha costruito una Casa delle Vedove e, grazie alle donazioni internazionali che riceve, riesce oggi ad assistere 400 famiglie e 2500 bambini, a cui offre un tetto, cibo a sufficienza e vari corsi di formazione. Lo aiuta anche una ong italiana, Amal for Education, che gestisce la scuola attigua al Centro. I suoi bambini perciò non devono lavorare. Ed è un primo passo per restituire loro il sorriso e allontanare i fantasmi della guerra. Resta la nostalgia, ma quella è incurabile.
Amedeo Rcucci – Esteri – Effetti Collaterali – Il Venerdì di Repubblica – 2 Dicembre 2016 -

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