I lavori di Parigi, ospitati nella sala
dell'orologio del Quai d'Orsay (dal 1853 sede del Ministero
degli Esteri francese) furono presieduti dai paesi vincitori, ossia Francia,
Gran Bretagna, Italia, Stati Uniti e Giappone. A dettare legge furono i primi
quattro, rappresentati in quella sede dai rispettivi capi di governo - il
presidente USA Thomas Woodrow Wilson, il primo ministro
francese Georges Clemenceau, l'omologo britannico David
Lloyd George e il presidente del consiglio italiano Vittorio
Emanuele Orlando - e dai ministri degli esteri.
Dalle trattative furono escluse: la Russia, impegnata in una
sanguinosa guerra civile tra i rossi bolscevichi, che avevano preso il potere
con la Rivoluzione d'Ottobre, e i bianchi "filozaristi",
sostenuti dalle potenze occidentali; i paesi vinti, coinvolti solo nella firma
dei vari protocolli di pace. I destini del mondo, comunque di una larga parte
di esso, erano affidati alle decisioni di Francia, Gran Bretagna, Italia e
Stati Uniti.
Fin dalle prime battute, prese il sopravvento la "linea dura" dei
padroni di casa, intenzionati a dare un severa lezione alla Germania e a
ridimensionarne fortemente l'autorità sui popoli dell'Europa centro-orientale,
riuniti per oltre mezzo secolo sotto le insegne dell'Impero austro-ungarico.
Contrario a questa linea il presidente Wilson che, nei suoi celebri Quattordici
punti, auspicava l'avvento di una nuova era di democrazia, imperniata sui
principi dell'autodecisione dei popoli e del rispetto delle nazionalità.
Anche la Gran Bretagna si dimostrò scettica sulla linea dura, manifestando le
proprie preoccupazioni nel Memorandum di Fontainbleau, dove si
rimarcava la necessità di costruire «una pace perpetua, non una pace
che durasse trent'anni». In tale ottica, l'adozione di misure punitive
rischiava di creare le premesse per futuri rigurgiti nazionalisti alimentati
dal desiderio di vendicarsi dei torti subiti.
Alla fine prevalse l'orientamento francese di attribuire ai tedeschi tutte le
responsabilità della guerra appena conclusa. Conclusioni che, con il
successivo Trattato di Versailles (giugno 1919), si tradussero
nell'annientamento militare ed economico della Germania, costretta a subire
pesanti clausole. Dall'ex Impero austro-ungarico nacquero quattro Stati
indipendenti: Austria, Ungheria, Cecoslovacchia, Jugoslavia (fino al 1929 noto
come Regno di Serbi, Croati, Sloveni). Le colonie, invece, furono spartite tra
le potenze vincitrici attraverso un sistema di mandati regolato dalla Società
delle Nazioni.
Quest'ultimo organismo, la cui istituzione (con sede a Ginevra) fu stabilita
durante la Conferenza di Parigi e formalizzata con il Trattato di Versailles,
si dimostrò inadatto a tenere fede al delicato compito assegnatogli, cioè di
risolvere pacificamente i contrasti tra gli Stati. L'uscita di scena degli USA
e la mancanza di risposte concrete contro gli Stati che contravvenivano ai suoi
principi, lo fecero apparire uno mero strumento di potere nelle mani di Francia
e Gran Bretagna.
Il peso politico dell'Italia a Parigi e nei successivi trattati fu
marginale e le richieste avanzate, in quanto paese vincitore, furono accolte in
minima parte. Dei territori della Dalmazia, rivendicati dal governo Orlando,
riuscì a ottenere la città di Zara, l'isola di Làgosta e l'arcipelago di
Pelagosa (Trattato di Rapallo, novembre 1920), lasciando il resto della regione
al Regno dei Serbi, Croati e Sloveni.
Con il Trattato di Saint-Germain (settembre 1919), strappò
all'Austria l'Alto Adige, l'Istria, l'intera Venezia Giulia, la Dalmazia
settentrionale e il diritto di chiedere maggiori concessioni sul fronte
coloniale.
http://www.mondi.it/almanacco/voce/120002
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