Verso la fine
del XIII secolo, dopo un breve periodo di pace, Firenze era ripiombata nel
clima di feroce contrapposizione tra Guelfi, che sostenevano la
supremazia del Papa, e Ghibellini, fautori del primato politico
dell'imperatore. Questo scenario aveva favorito l'ascesa del ceto mercantile a
discapito dell'aristocrazia, attraverso la creazione nel 1282 di un consiglio
di rappresentanti delle Arti (corporazioni che facevano gli
interessi di una specifica categoria professionale) che affiancava il Podestà nel
governo del Comune, in sostituzione del Capitano del Popolo.
Guelfo convinto e iscritto all'Arte dei Medici e Speziali, Dante aveva
già al suo attivo diversi incarichi politici ed era uno dei protagonisti della
scena istituzionale della sua città. L'autonomia della stessa per lui era un
valore sacro da difendere contro qualsiasi ingerenza, sia da parte di sovrani
stranieri, sia da parte del Papa. Per tali ragioni accolse come un evento
infausto l'ascesa al "soglio di Pietro", nel 1294, del cardinale Benedetto
Caetani, favorita dalla rinuncia di papa Celestino V (più
che plausibile il riferimento a lui nel verso «colui che fece per
viltade il gran rifiuto» del III canto dell'Inferno).
Il nuovo pontefice, che aveva preso il nome di Bonifacio VIII,
trovò nel letterato fiorentino un fiero oppositore alla sua politica
espansionistica, che a Firenze finì per dividere il partito guelfo in due
fazioni: i Bianchi, capeggiati dalla famiglia dei Cerchi ed
espressione dell'aristocrazia più aperta alle forze popolari, erano contrari a
qualsiasi ingerenza da Roma; i Neri, guidati dai Donateschi e
rappresentati dalle famiglie locali più ricche, erano per interessi economici
strettamente legati al Papa.
Schierato con i Bianchi, Dante si venne a trovare sempre più isolato dai suoi,
oltre che odiato a morte dai suoi avversari, per via della sua partecipazione
al Consiglio dei Cento che aveva deciso la messa al bando
dalla città degli esponenti più violenti delle due fazioni. A questo punto la
strategia di Bonifacio VIII lo attirò in una trappola "letale". Dopo
aver mandato Carlo di Valois, fratello di Filippo IV re di Francia,
a prendere il controllo del Comune, fece in modo che il Poeta fosse inviato
come ambasciatore a Roma per discutere la pace e qui trattenuto oltre il dovuto
con l'inganno.
In questo frattempo, Carlo di Valois approfittò dei disordini cittadini per
rovesciare il governo "bianco" di Firenze, nominando Podestà il
fedele condottiero Cante Gabrielli. Il nuovo Podestà, alleato con i Neri,
iniziò un'azione persecutoria nei confronti dello scrittore che, oltre a
vedersi saccheggiata la casa, finì sul banco degli imputati con accuse
infamanti, tra cui l'estorsione e la baratteria. Quest'ultimo reato
(affrontato nei canti XXI e XXII dell'Inferno), assimilabile al
moderno peculato, era utilizzato spesso come pretesto per far fuori
i propri avversari.
Fu organizzato un processo farsa al quale Dante preferì sottrarsi, presagendo
il destino cui sarebbe andato incontro. Si arrivò così alla sentenza
del 10 marzo 1302 che condannava in contumacia l'imputato a due anni
di confino, all’interdizione perpetua dai pubblici uffici, alla confisca dei
beni e al pagamento dell’ammenda di 5000 fiorini piccoli. Al suo reiterato
rifiuto di presentarsi davanti al giudice, la pena, estesa nel 1315 ai figli
Jacopo e Pietro, fu commutata nella confisca dei beni e nell'esilio perpetuo,
con l'alternativa della condanna al rogo se fosse stato catturato.
Ciò per Dante significò dire addio per sempre alla sua amata terra e l'inizio
di una lunga fase di sofferenza interiore e di ripensamento della sua poetica,
che costituì l'humus ideologico e stilistico del suo capolavoro immortale:
la Divina Commedia. La storica sentenza della condanna all'esilio è
raccolta nel Libro del Chiodo, attualmente conservato presso
l'Archivio di Stato di Firenze.
http://www.mondi.it/almanacco/voce/245019
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