LA VITA
PRIVATA. LA SCUOLA, L’UNIVERSITÀ, LA GUERRA E LA RESISTENZA
Nacque a Bologna il 10 settembre 1917 da Cesare,
ufficiale medico dell’esercito, e da Livia Corazza, che morì pochi mesi dopo il
parto nella drammatica epidemia di 'spagnola'.
La morte della moglie spinse Cesare Barile a fare
ritorno a Roma, dove risiedevano i suoi parenti, un'agiata famiglia di origine
pugliese orientata verso le libere professioni e il servizio pubblico (un
fratello di Cesare era consigliere di Stato). La grave malattia infettiva che
aveva ucciso l'amatissima moglie spinse Cesare a proteggere la salute del
figlio fino al punto di vietargli l'iscrizione alla scuola, pubblica o privata
che fosse. Cosicché Paolo fu costretto a seguire una rigorosa educazione
studiando privatamente in casa fino alla quinta ginnasio, quando il padre gli
permise di iscriversi al liceo Mamiani di Roma.
Fu proprio attraverso il liceo che Paolo Barile poté
aprirsi al mondo e alla cultura. Si iscrisse alla classe di pianoforte del
Conservatorio, che frequentò per cinque anni, e conobbe gli amici della sua
formazione giovanile; fra questi Bruno Zevi e Antonio Giolitti, ai quali
sarebbe rimasto sempre legato. L’amore per la musica accompagnò Barile per
tutta la vita e, come era proprio del suo carattere, divenne anche impegno
civile. Ricoprì, infatti, per quasi venti anni, la carica di vicepresidente del
Maggio musicale fiorentino, al cui sviluppo dette un contributo fondamentale
non soltanto sul terreno amministrativo e giuridico ma anche su quello
artistico, sostenendo quanto di meglio (da Bruno Bartoletti a Riccardi Muti, da
Roman Vlad a Massimo Bogianckino e Zubin Mehta) si espresse in quegli anni a
Firenze e affrontando, con il sindaco Giorgio Morales e l’intero Consiglio di
amministrazione, assurde controversie giudiziarie causate dal fermo rifiuto del
Teatro di bandire concorsi che avrebbero portato, in quel momento, ad abbassare
la qualità dei suoi complessi artistici. Notevole fu anche il contributo di
Barile al dibattito politico e culturale che riguardò, fra gli anni Settanta e
Ottanta, la diffusione della musica e la riforma degli enti lirico-sinfonici
(cfr. tra gli altri suoi scritti in questa materia, Gli enti lirici, 1984).
Nel 1936 Barile si iscrisse alla facoltà di
giurisprudenza dell’Università di Roma, dove si laureò in diritto civile cum
laude nel 1939 con una tesi sulla famiglia discussa con Giuseppe
Messina, del quale divenne, subito dopo, assistente volontario. Nel 1941 vinse,
non ancora ventiquattrenne, il concorso a magistrato ordinario, classificandosi
al primo posto. Nel 1942 fu chiamato alle armi: destinato a Trieste, i postumi
di un grave incidente motociclistico gli impedirono di partire per la Russia
con il suo reggimento e fu inquadrato nei ruoli della magistratura militare.
Agli inizi di novembre del 1938 si era sposato con
Rena Gattegno. Il motivo per il quale il matrimonio fu celebrato prima del
previsto stava nell'imminente entrata in vigore delle leggi razziali, perché
l’appartenenza di Rena a una famiglia ebraica di Alessandria d’Egitto avrebbe
reso impossibile, a partire dal 15 novembre 1938, il suo matrimonio con Barile.
Dall'unione nacquero due figlie, Laura e Paola, che avrebbero seguito la
carriera universitaria: Paola nella giurisprudenza, Laura nella letteratura
contemporanea. Dopo il divorzio da Rena, Barile si unì in matrimonio con Lia
Tosi. Una lunga e felice unione che sarebbe stata interrotta solo dalla morte.
L’8 settembre 1943 colse Barile a Trieste. Le sue
amicizie e i legami che aveva già stabilito con Piero Calamandrei, il
liberalsocialismo e il Partito d’azione fiorentino lo indussero a spostarsi a
Firenze dove, dopo il 25 luglio 1943, Calamandrei era stato nominato rettore
dell’Università, carica che aveva accettato su sollecitazione di quella cerchia
di amici – come Tristano Codignola, Carlo Furno, Francesco Calasso, Enzo
Enriquez Agnoletti, Alberto Predieri – che costituivano anche il punto di
riferimento politico e culturale di Barile a Firenze (cfr. Sordi, 2005, pp. 1
ss.).
Sono queste persone, gli « elementi del Partito
d’Azione» con le quali Barile «prese contatto» tornato da Trieste
alla fine del settembre1943, come si legge in una sua 'relazione sulla attività
clandestina' inviata il 25 giugno 1945 a Tristano Codignola, membro del
Comitato toscano di liberazione nazionale (CTLN) nella quale racconta i momenti
più importanti della sua partecipazione alla resistenza fiorentina.
Nell’ottobre del 1943 Barile fu designato dal CTLN come rappresentante del
Partito d’azione nel Comitato militare interpartiti, costituito da
rappresentanti di tutti partiti del Comitato di liberazione nazionale (CLN) e
da «ufficiali effettivi e della riserva, apolitici». Furono proprio gli
ufficiali a essere arrestati il 2 novembre 1943 durante la preparazione di un
«piano preliminare di operazioni di sabotaggio».
Come si legge nella relazione di Barile, «… di noi,
tredici furono torturati e picchiati… a me fu riservato uno speciale
trattamento che si concluse con una pugnalata alla testa …». Dopo lo «speciale
trattamento», Barile fu condannato a morte insieme all'avvocato Adone Zoli e
agli altri componenti del Comitato militare. La condanna non fu eseguita perché
gli arrestati, sottratti ai fascisti dalla polizia tedesca, furono reclusi nel
carcere della Fortezza da Basso (gestito dalle SS) e poi rilasciati
temporaneamente malgrado la richiesta dei fascisti fiorentini di aggiungere
Barile, Zoli, il generale Salvino Gritti e altri due detenuti dalle SS ai dieci
civili che dovevano essere fucilati come rappresaglia, a causa dell’uccisione,
ad opera dei Gruppi di azione patriottica (GAP), del colonnello Gino Gobbi. In
seguito all’inaspettato rilascio, gli arrestati poterono, come scrisse Barile,
«darsi alla macchia». In una sua intervista a Renzo Cassigoli su L'Unità del
21 giugno 1996, Barile dichiarò che gli rimasero sempre ignoti sia i motivi
dell’intervento tedesco sia quelli del rilascio suo e degli altri detenuti,
anche se la presenza fra questi di Zoli e dei suoi due figli gli facevano
supporre un intervento sul comando tedesco del cardinale Elia Della Costa. In
realtà, i rapporti fra i tedeschi e i fascisti fiorentini erano in quel momento
pessimi, perché il maggiore Mario Carità pretendeva di guidare personalmente (e
con spietata ferocia) la repressione contro la resistenza fiorentina; cosicché
il singolare episodio del rilascio degli arrestati per opera delle SS potrebbe
essere avvenuto anche per dimostrare ai fascisti chi comandava veramente a
Firenze. Si può pensare, però, a un possibile intervento diretto di Mussolini
sui tedeschi, intervento sollecitato da sua moglie Rachele (nata, come
Mussolini, a Predappio, luogo di origine anche degli Zoli) che rimase sempre
legata da profondi rapporti di gratitudine ad Adone Zoli e alla sua famiglia,
che la aveva generosamente aiutata prima del suo matrimonio con il futuro duce.
Questa ipotesi sembra confermata dalla decisione di Zoli, presidente del
Consiglio nel 1957, di riconsegnare alla famiglia il corpo di Mussolini.
La liberazione dal carcere consentì a Barile di riprendere
l’attività clandestina, ed egli partecipò alla battaglia per la liberazione di
Firenze dal 10 al 15 agosto 1944 dopo essersi trasferito, con altri partigiani,
attraverso il Corridoio Vasariano dalla zona dell’Oltrarno al centro della
città, che fu liberato dalle formazioni partigiane dopo cinque giorni di duri
scontri (L. Barile, 2016, pp. 125 ss.).
LA FORMAZIONE
SCIENTIFICA. CALAMANDREI, IL PONTE“ E L’ATTIVITÀ NEL PARTITO D’AZIONE
È noto che quando gli Alleati entrarono a Firenze trovarono
già ricostituite la giunta comunale, il sindaco, la giunta provinciale e il
presidente della Provincia: organi tutti nominati dal CTLN. La conferma di
queste nomine da parte dell'Amministrazione alleata fu un gesto importante
perché riconobbe, per la prima volta nel corso della Liberazione, il ruolo
politico, oltreché militare, del CLN anche nelle amministrazioni locali delle
zone liberate. In conseguenza di questo atto la vita civile e politica della
città riprese rapidamente, tanto da consentire, fra l’altro, l'inaugurazione,
il 15 settembre 1944, del nuovo anno accademico dell’Università, alla cui guida
fu di nuovo nominato Calamandrei.
In questo clima di fervore e di rinnovamento, Barile
riprese a Firenze la sua attività di magistrato ordinario, continuando a
militare «con fierezza», come avrebbe scritto anni dopo, nel Partito d’azione e
legandosi, come fu testimoniato da Mario Galizia (2002, p. 12 ) anche a Paolo
Vittorelli e al suo Movimento d’azione socialista, alla stesura del cui
'Manifesto del 1947' Barile collaborò attivamente. Tuttavia, fondamentali
furono soprattutto i rapporti da lui stabiliti con il gruppo di intellettuali
che si muovevano intorno alla rivista Il Ponte, fondata da
Calamandrei a Firenze nell’aprile del 1945. Su quella rivista (1945, n. 3)
comparve un importante saggio storico-giuridico di Barile, Il ritorno
della tortura, nel quale il richiamo a Cesare Beccaria, comparato alla
scomparsa di qualsiasi garanzia delle libertà negli stati totalitari,
precedette appena la scoperta dei campi di sterminio che sarebbe avvenuta
proprio da quel mese in poi. Significativa, nelle esperienze compiute da Barile
in quel periodo, fu anche la sua collaborazione al settimanale Il Mondo ,
anch’esso di orientamento azionista, diretto da Alessandro Bonsanti.
Per comprendere pienamente quale sia stata l'influenza
delle speranze e dell’ansia di rinnovamento di quegli anni sulle scelte
politiche, culturali e di vita di un giovane magistrato che aveva già maturato
dure e significative esperienze nella guerra e nella Resistenza, occorre
tuttavia ricordare che nei due anni che portarono dalla Liberazione di Roma al
2 giugno 1946, la 'questione istituzionale' (la costituzione provvisoria, la
scelta fra monarchia e repubblica e la convocazione dell'Assemblea costituente)
si pose al centro delle scelte politiche e culturali degli italiani e
soprattutto di chi, come Barile, aveva fatto del Partito d’azione il suo punto
di riferimento culturale e politico.
La convocazione dell'Assemblea costituente e la definizione
dei suoi poteri erano diventati, infatti, uno dei principali obiettivi politici
del Partito d’azione che, a partire dalla approvazione del d. lgt. 151/1944, si
era fortemente impegnato per rendere effettive le promesse contenute nella
Costituzione provvisoria: la convocazione di un’Assemblea costituente subito
dopo la liberazione dell’Italia; l'attribuzione all'Assemblea del potere di
approvare la nuova Costituzione e di decidere la forma istituzionale dello
Stato (monarchia o repubblica); l'approvazione della legge elettorale
dell'Assemblea e dei poteri anche diversi da quello costituente che essa
avrebbe potuto esercitare.
Fu la decisiva rilevanza di questi problemi
politico-istituzionali che indusse Calamandrei a chiedere a un «giovane
magistrato … che si è formato, prima che negli studi nella lotta politica
clandestina» di scrivere un saggio sull'Assemblea costituente.
Nacque così, fra gli ultimi mesi del 1944 e il giugno
del 1945, quella breve monografia (Orientamenti per la Costituente,
Firenze 1945 ) che costituì il vero 'libro di formazione' non soltanto
giuridica ma anche politica di Barile, che finì per far maturare dentro di lui
la scelta di dedicarsi allo studio del diritto costituzionale.
Il valore storico-politico degli Orientamenti risiede
nella lucidità con la quale Barile afferma, da un lato, la piena fiducia nei
principali istituti della democrazia liberale. Accanto a questo, tuttavia, la
maggior parte del saggio appare dedicata alla critica dei limiti delle
democrazie del Novecento a causa della ristrettezza della loro rappresentanza
democratica; del mancato rispetto delle minoranze; del centralismo statalista;
della non ottemperanza delle loro costituzioni al fondamentale principio della
divisione dei poteri.
Da questi limiti storici della democrazia liberale
italiana doveva discendere, dunque, l'imprescindibile esigenza
dell'approvazione, da parte della Costituente, di una costituzione rigida, non
modificabile da parte della sola maggioranza parlamentare e garantita dalla
presenza di una Corte costituzionale dotata del potere di dichiarare
l'inefficacia delle leggi contrarie alla Costituzione e che doveva essere
ispirata, quanto alla forma di governo, alla massima espansione della
democrazia rappresentativa; basata su una legge elettorale proporzionale e sul
bicameralismo; temperata dall'introduzione del referendum; fondata
sull’effettivo pluralismo dei partiti politici (la democraticità dei quali
doveva essere prevista dalla stessa Costituzione); sull'investitura fiduciaria
dei governi da parte del Parlamento (ma secondo il modello direttoriale) e sul
rigoroso rispetto della separazione dei poteri a garanzia, soprattutto, di
quell'indipendenza della magistratura che il regime statutario non aveva voluto
realizzare.
La circostanza che questo saggio fosse stato scritto
mentre era ancora in corso la lotta di liberazione, gli attribuì (così come
avvenne per la fondamentale monografia di Costantino Mortati su La
Costituente, appena precedente) non solo un importante significato
scientifico, che emergeva soprattutto dalla ricostruzione, non consueta nel
corso dell’ultimo ventennio, di un vasto panorama di diritto comparato, ma
anche un diretto valore politico in relazione al dibattito in corso all’interno
del Partito d’azione sulla definizione del 'progetto di Costituzione' che quel
Partito intendeva presentare all'Assemblea costituente. Un progetto che si
sarebbe fondato, come decise il Congresso azionista del febbraio 1946, sulla
proposta di una diffusa democrazia di base equilibrata al vertice da una
struttura istituzionale fondata sulla rigorosa separazione dei poteri secondo
il modello presidenziale degli Stati Uniti. Rispetto a questo modello, il
contributo di Barile si distinse, però, nettamente, come accennato, per il
rifiuto del modello presidenziale, che egli considerò pericoloso perché avrebbe
condotto ad accentrare l’intero potere esecutivo nelle mani del solo presidente
diminuendo le garanzie delle minoranze malgrado il vantaggio di una più netta
divisione dei poteri.
Come è noto, il modello presidenziale, caro al Partito
d’azione, fu nettamente respinto dalla seconda sottocommissione dell’Assemblea
costituente con l’approvazione dell’ordine del giorno Perassi nel quale si
stabilì che la nuova Costituzione avrebbe avuto alla sua base una forma di
governo parlamentare costruita in modo «da evitare le degenerazioni del
parlamentarismo». Nel quadro di quella decisione il modello del governo
direttoriale, caro a Barile (un modello nel quale il Parlamento concede la
fiducia a un governo che non può però essere sfiduciato prima della scadenza di
un termine predeterminato nella Costituzione), fu seriamente discusso. Anche se
fu, poi, abbandonato in considerazione della rigidità del suo funzionamento che
ne sconsigliava l'adozione in una democrazia di grandi dimensioni come quella
italiana.
Il rifiuto della Costituente di adottare una forma di
governo di tipo presidenziale non portò, tuttavia, l’Assemblea a ignorare le
motivazioni di fondo di quel progetto e che consistevano nella necessità di ispirare
la nuova forma di governo a una effettiva separazione dei poteri volta
principalmente a garantire l’indipendenza del potere giudiziario. Alla fine, e
soprattutto per merito di Calamandrei, quel principio fu chiaramente inserito
nella nuova Carta costituzionale ed è significativo che, dopo l'approvazione
della Costituzione e lo scioglimento del Partito d’azione, non solo Calamandrei
ma anche Barile si sarebbero impegnati in una lunga battaglia per rendere
effettiva la realizzazione di quel principio.
LE LIBERTÀ
'DONATE DALLA COSTITUZIONE' E LA LUNGA BATTAGLIA PER LA LORO ATTUAZIONE. LA
PROFESSIONE DI AVVOCATO E L’INSEGNAMENTO UNIVERSITARIO
Nel 1947 Barile accettò gli inviti del suo maestro
Calamandrei ad abbandonare la magistratura, a entrare a far parte del suo
studio professionale e a proseguire nell'attività di ricerca, nella prospettiva
di intraprendere la carriera universitaria.
Già dall’esordio della sua attività di studioso,
Barile dimostrò di essere molto lontano da «… quei giuristi artigiani riposati
e raffinati, che non amano il tempestoso clima dei grandi cataclismi
sociali… » che erano stati evocati da Calamandrei proprio nella sua
introduzione agli Orientamenti per la Costituente. Quasi tutti i
suoi primi scritti nacquero, infatti, dal suo bisogno di difendere i principi e
il significato fondamentale della Costituzione contro il tentativo della Corte
di Cassazione di negare l'immediata imperatività della Costituzione e la sua
applicabilità alle leggi anteriori alla sua entrata in vigore. Contro la tesi
che negava in radice i due fondamentali principi della diretta e immediata
superiorità della Costituzione sulle leggi e quello della sua rigidità, Barile
pubblicò, fra il 1947 e il 1950, più di dodici scritti, che si aggiunsero a quelli
dei costituzionalisti più giovani come Vezio Crisafulli, Alberto Predieri,
Carlo Lavagna e di altri meno giovani, come Mortati, Giorgio Balladore
Pallieri, Calamandrei, Carlo Esposito, tutti convinti che la difesa
dell'immediata efficacia della Costituzione e della sua avvenuta trasformazione
da norma politica in norma giuridica fosse necessaria per respingere il
tentativo della Cassazione, di affermare l'esistenza di una continuità tra la
forma di Stato del prefascismo e del fascismo e la nuova Repubblica
democratica. L'obbligatorietà dell'immediata attuazione della Costituzione non
soltanto da parte del Parlamento, ma di tutti gli organi dello Stato, avrebbe
anche significato che la magistratura, in attesa dell'entrata in funzione della
Corte costituzionale, avrebbe dovuto interpretare le leggi esistenti nel senso
indicato dalla Costituzione e avrebbe dovuto non applicarle se ritenute
incostituzionali. Lo stesso diritto costituzionale sarebbe così diventato, come
aveva scritto Calamandrei, il «diritto del futuro»: una scienza dedicata a
elaborare i principi fondamentali che dovevano essere attuati in tutti quei
settori del diritto (amministrativo, civile, penale, processuale) che erano
stati ritenuti, fino ad allora, fuori dalla Costituzione, considerata legge di
valore solo politico, astratta e irrilevante nella concreta applicazione del
diritto.
Da questi anni di studio 'militante' nacque la seconda
monografia di Barile (La Costituzione come norma giuridica, Firenze
1951) in cui si chiariva il senso della profonda trasformazione in base alla
quale le costituzioni del secondo dopoguerra avevano stabilito «una presunzione
di (immediata) validità e di efficacia giuridica a favore di tutte le norme
costituzionali» dalla quale derivava direttamente «la illegittimità delle leggi
anteriori contrarie ad essa e delle posteriori dal momento in cui nascono». In
conseguenza di questa assoluta superiorità giuridica della Costituzione anche
le giurisprudenze ordinarie e amministrative dovevano, nell'attesa dell'entrata
in funzione della Corte costituzionale, dichiarare in relazione ai casi
concreti sottoposti al loro giudizio la illegittimità delle leggi contrarie
alla Costituzione. Ne conseguiva, secondo Barile, che «le norme costituzionali
hanno, per definizione, l’effetto di paralizzare tutte le attività statali,
giurisdizionali ed esecutive, che nascano dalla applicazione di leggi ordinarie
in contrasto con esse».
La pubblicazione della Costituzione come norma
giuridica costituì una svolta nella vita professionale e scientifica
di Barile perché grazie a quello scritto egli ottenne, nello stesso anno 1951,
la libera docenza e poi l’incarico di diritto costituzionale nell'Università di
Siena.
Nella visione di Barile lo studio e la pratica del
diritto non erano, però, fine a se stessi ma uno strumento di intervento
attivo, nella società. Questa sua concezione etica e realistica insieme del
diritto spiega il costante parallelismo che accompagnò il suo impegno
scientifico e la sua professione di avvocato. Nacquero così in quegli anni
molti suoi scritti dedicati al tema delle libertà nella Costituzione, la
maggior parte dei quali erano motivati dallo 'scandalo' della loro mancata
attuazione da parte del Parlamento, della pubblica amministrazione e della
giurisprudenza. Ricordando quel momento della nostra storia in occasione della
pubblicazione di uno dei suoi ultimi studi sulle libertà costituzionali, Barile
scrisse che la società italiana di quegli anni «ignorava del tutto l’ampiezza
delle libertà in una democrazia moderna, quando di queste libertà, nel 1948 si
trovò in possesso quasi senza aspettarselo» (Diritti dell’uomo,1984).
Il grande merito della cultura costituzionalistica di
quegli anni fu, dunque, quello di aver combattuto una lunga battaglia per
affermare con gli strumenti del diritto (l'interpretazione delle norme e la
giurisprudenza), la prevalenza immediata delle norme nuove sulle norme vecchie
non soltanto per dimostrare l'incompatibilità con la Costituzione delle singole
limitazioni delle libertà poste dalla normativa precedente, ma anche per
smantellare, così come fece Barile nella sua terza monografia, Il
soggetto privato nella Costituzione italiana (Padova 1953), quella
secolare dottrina dell'esistenza di 'limiti naturali' alle libertà
concretizzatasi in concetti pseudo giuridici quali, ad esempio, l’ordine e la
sicurezza pubblica o il buon costume.
La pubblicazione della monografia sul Soggetto
privato valse a Barile la vittoria nel concorso a cattedra di diritto
costituzionale bandito dall'Università di Siena nel 1953. In quell'Università
Barile insegnò dal 1954 al 1963, anno nel quale fu chiamato dall'Università di
Firenze sulla cattedra di diritto costituzionale. Negli anni del suo
insegnamento nell'Università fiorentina, che coincisero con la sua piena maturità
personale e scientifica, Barile avrebbe dato il meglio di sé non soltanto
nell'attività di ricerca ma anche nell’insegnamento. Un insegnamento rivolto
non soltanto agli studenti che affollavano le sue lezioni ma anche ai giovani
studiosi che si formavano accanto a lui fino a costituire, negli anni, una vera
'scuola' fiorentina del diritto costituzionale. Scuola che sarebbe rimasta
negli anni viva e solidale perché ispirata a quel rispetto del pluralismo
culturale che aveva sempre contraddistinto il suo maestro. Segno della sua
attenzione al tema del rapporto fra l’università e l’insegnamento superiore fu
anche la fondazione, nel 1965, ad opera sua, di Giovanni Spadolini, Predieri e
Tosi del Seminario di studi e ricerche parlamentari dedicato alla permanente
formazione degli aspiranti consiglieri parlamentari (cfr. Caretti, 2013, p.
170).
LA CORTE
COSTITUZIONALE E LA SUA 'FUNZIONE DI INDIRIZZO POLITICO COSTITUZIONALE'. LA
MAGISTRATURA E LE LIBERTÀ COSTITUZIONALI
Come fu ricordato da Barile in una sua lezione tenuta
nel marzo del 1990 al Collegio Ghisleri di Pavia (Libertà, giustizia,
costituzione, Padova 1993) la prima sentenza della Corte Costituzionale,
finalmente costituita nel 1956, cancellò una sentenza appena pronunciata dalla
Cassazione in tema di libertà di manifestazione del pensiero. Una decisione che
tenne conto anche dell’intervento e della memoria scritta da Calamandrei in
collaborazione con Barile.
Da allora, il 'ceto' dei costituzionalisti poté
misurarsi non più con un avversario, come era stata quasi sempre la Corte di
Cassazione, ma con un alleato, la Corte costituzionale, che sarebbe stata
progressivamente affiancata, con il trascorrere degli anni, dalla
giurisprudenza dei magistrati affinati nella conoscenza della Costituzione
dalla diffusione nelle università dei corsi e degli scritti di diritto
costituzionale e dal diffondersi della giurisprudenza della Corte.
In questa triangolazione, che fu decisiva nel processo
di attuazione della Costituzione, Barile ebbe, sia attraverso i suoi scritti
sia come avvocato, un ruolo essenziale che riguardò non soltanto la difesa dei
diritti individuali di libertà ma anche dei diritti delle (e nelle) formazioni
sociali, politiche e religiose, come lo status della famiglia, la condizione
dei culti acattolici e i privilegi concessi dal Concordato alla Chiesa
cattolica. Temi sui quali egli ingaggiò una lunga battaglia che, partendo da
una sua relazione al convegno degli 'Amici del Mondo' del 1957, risultò poi
essenziale nella formazione di quella giurisprudenza della Corte che riconobbe,
alla fine, che i Patti Lateranensi non erano stati 'costituzionalizzati' con la
conseguente prevalenza su di essi dei principi supremi della Costituzione.
Nel 1956 la morte prematura di Calamandrei aveva
privato i costituzionalisti che si erano più fortemente battuti per
l'attuazione della Carta costituzionale di un punto di riferimento
fondamentale, ma quella scomparsa fu vissuta da Barile e dalla maggior parte
dei costituzionalisti italiani come un passaggio di consegne dalla generazione
dei giuristi - costituenti a quella di coloro che si erano formati su quei
valori entrati a far parte, grazie ai primi, di una Carta costituzionale che
richiedeva, ormai, solo di essere attuata. In questa direzione Barile pubblicò due
scritti su due temi carissimi al suo maestro: uno, su Il Ponte del
1957, L’attuazione della Costituzione, un problema sempre più vivo ed
attuale; l’altro, Corte costituzionale organo sovrano, che
apparve nel 1956 sulla rivista Giurisprudenza Costituzionale appena
edita.
Il secondo saggio ebbe un particolare rilievo perché
in esso Barile affermò l’esistenza di una sovranità della Corte che si riferiva
non soltanto al suo evidente potere di cancellazione delle norme
incostituzionali ma anche alla sua capacità di partecipare all'attuazione della
Costituzione attraverso la diretta applicazione di quelle norme costituzionali
che «spesso si limitano a stabilire (soltanto) il fine, che è talvolta
puntualizzato in un valore supremo, come la eguaglianza; la giustizia; la
dignità e così via». Un'attuazione della Costituzione destinata ad avverarsi,
dunque, attraverso la forza interpretativa e creativa delle sentenze.
Ugualmente importante fu, subito dopo, un lungo
saggio, I poteri del Presidente della Repubblica, pubblicato
sulla Rivista trimestrale di diritto pubblico del 1958, ove
Barile sostenne la piena legittimità costituzionale del comportamento del
presidente Giovanni Gronchi che aveva posto il tema dell'attuazione della
Costituzione al primo posto dell'agenda politica del Parlamento e del governo,
non soltanto per ciò che riguardava l'istituzione della Corte costituzionale e
del Consiglio superiore della magistratura (CSM) ma anche per i diritti di
libertà; l'eliminazione della disoccupazione; l’ispirazione sociale
dell’economia; lo sviluppo del Mezzogiorno; i partiti politici; la politica
estera e la pace.
Quella vicenda merita di essere, ancora oggi,
ricordata perché essa pose per la prima volta in evidenza che il tema
dell'attuazione della Costituzione sarebbe stato destinato ad assumere in
Italia un rilievo politico primario attraverso uno scambio di culture e di
influenze reciproche fra i teorici delle istituzioni (e fra questi in primo
luogo i costituzionalisti) e gli attori politici: come si dimostrò nella
seconda legislatura, ancora dominata dall'esperienza centrista ma nella quale
si manifestarono, anche grazie alle 'aperture' di Gronchi, quei segnali di
svolta politica che porteranno dalla fine del decennio alla nascita dei governi
di centro sinistra, i programmi dei quali si richiameranno in molti dei loro
punti all'attuazione della Costituzione.
LE LIBERTÀ E LA
FORMA DI GOVERNO FRA GLI ANNI SESSANTA E GLI ANNI OTTANTA. PAOLO BARILE
'AVVOCATO DELLA COSTITUZIONE' E GIURISTA DELLE GARANZIE COSTITUZIONALI
Il saggio sui poteri del presidente della Repubblica
avrebbe costituito, e proprio in relazione alla peculiarità di questa figura,
la struttura della futura riflessione di Barile sulla forma di governo
italiana. Già nella prima edizione del suo Corso di diritto
costituzionale del 1962 (che fu da subito un punto di riferimento
fondamentale degli studenti e degli studiosi del diritto costituzionale) Barile
sviluppò tutta la ricchezza e l'originalità della figura del presidente, organo
di garanzia e di indirizzo politico e costituzionale in quanto dotato del
potere di spingere tutti i poteri dello Stato verso l'attuazione della
Costituzione. Queste sue tesi sarebbero state compiutamente sviluppate nel
saggio sul presidente della Repubblica apparso in occasione del decennale della
Costituzione nel 1958 e poi nella sua voce Presidente della Repubblica pubblicata
sul Novissimo Digesto Italiano del 1966.
Tuttavia, Barile continuò a ritenere che la forma di
governo realmente vigente non potesse essere definita che in relazione al
sistema delle libertà che a esso faceva da contrappeso. In effetti, se si
guarda la bibliografia di Barile dalla fine degli anni Cinquanta al 1984,
quando pubblicò il suo fondamentale saggio sui Diritti dell’uomo e
libertà fondamentali, non si può non rimanere colpiti dal costante
parallelismo fra lo sviluppo dei suoi studi sulla forma di governo italiana (e
sulla nascente forma di governo comunitaria) e il crescere dei suoi interessi
sul sistema complessivo delle libertà, tanto che appare esatto definire Barile
sia come il giurista delle libertà sia come il giurista delle garanzie
costituzionali (Cheli, 2000).
In questo quadro deve essere ricordata la sua
collaborazione alla nascente Enciclopedia del Diritto, per la quale
scrisse alcune voci fondamentali quali quelle sul diritto di associazione e di
riunione (1959) e su quelle di corrispondenza (1962), di domicilio (1964), di
manifestazione del pensiero (1974), voce destinata a diventare monografia nel
1975. Accanto alla riflessione scientifica sui problemi delle libertà
(riflessione che divenne storico-giuridica nel suo saggio sulla pubblica
sicurezza che comparve negli Atti del congresso celebrativo del
centenario delle leggi amministrative di unificazione, pubblicati a sua
cura nel 1967) il contributo di Barile alla crescita del sistema delle libertà
avvenne anche, come detto, attraverso l’esercizio della sua professione di
avvocato e questo nel solco di una storica tradizione che gli era stata
direttamente trasmessa da Calamandrei ma che era divenuta ancora più importante
da quando la Costituzione aveva inserito anche i giudici ordinari e
amministrativi nel circuito del giudizio di costituzionalità.
In effetti sotto questo profilo l'influenza di Barile
fu notevole non solo nello sviluppo della giurisprudenza della Corte
costituzionale ma anche di quella ordinaria e amministrativa grazie alle sue
'difese' che riguardarono, nell’arco di un trentennio, tutti i più importanti
diritti di libertà individuali e collettivi. Quelle difese, come è stato
ricordato da un suo allievo, Stefano Grassi (Paolo Barile avvocato,
relazione inedita, 2012), riguardarono le più forti limitazioni alle libertà
contenute non solo nelle leggi di pubblica sicurezza ma anche in tutti i codici
nati nel periodo fascista e che agli inizi degli anni Sessanta erano ormai
diffusamente avvertite come intollerabili.
A questo proposito sono da ricordare almeno
l’intervento di Barile nel processo contro il vescovo di Prato, Pietro
Fiordelli, accusato di diffamazione per aver definito «pubblici
concubini» due giovani che avevano contratto il solo matrimonio civile; la
difesa di padre Ernesto Balducci e di Giorgio La Pira, processati per aver
fatto proiettare il film Non uccidere, di Claude Autant-Lara, privo
del visto della censura; il suo intervento alla Corte costituzionale per
sostenere la costituzionalità della propaganda dei contraccettivi e
l'incostituzionalità dell’obbligo dell'iscrizione all’albo dei giornalisti per
i direttori della stampa periodica; la difesa della costituzionalità della
legge del 1970 che aveva introdotto il divorzio, oggetto del referendum
abrogativo del 1974; quella sulla necessità del rispetto del diritto alla
difesa nelle cause di scioglimento dei matrimoni concordatari; la difesa della
libertà di insegnamento nella controversia tra Franco Cordero e l’Università
cattolica.
Accanto alla costante attenzione alle libertà
individuali e a quelle collettive, il percorso di Barile nel sistema delle
libertà costituzionali si caratterizzò, a partire dal 1970, dalla sua
'scoperta' del cambiamento del significato delle libertà tradizionali in
relazione allo sviluppo di quei diritti, da lui definiti «di terza
generazione», che stavano nascendo dal mutamento del rapporto fra l’autorità e
la libertà in relazione ai nuovi assetti sociali ed economici (come i diritti
ambientali e il diritto alla salute); quelli che nascevano dall’emergere di
richieste riguardanti la sfera più profonda della personalità umana e
dell'identità personale; quelli attinenti al rapporto fra l’individuo e il
nuovo sistema dei mass media, come la privacy e il diritto all’informazione.
Il diritto all’informazione divenne, per Barile, un
impegno costante nella sua attività scientifica e si sviluppò anche nella
direzione di ricerche collettive di ampio respiro riguardanti l’Italia e i
modelli europei, nella consulenza ai partiti e ai governi e alla stessa RAI e
nella sua opera all’interno del governo Ciampi per una radicale riforma della
RAI e del sistema radiotelevisivo italiano.
In questa pluridecennale ricerca i punti cardinali di
Barile rimasero sempre gli articoli 21 e 43 della Costituzione, che egli aveva
posto alla base del suo commento alle due storiche sentenze della Corte
costituzionale del 1974 sul monopolio statale del servizio radiotelevisivo, che
avevano riconosciuto il monopolio statale sulla televisione (cfr. Barile,
1975). Dopo l'approvazione da parte del governo Craxi della liberalizzazione
delle trasmissioni radiotelevisive private su tutto il territorio nazionale,
Barile continuò a difendere il ruolo pubblico della RAI ma condannò la
nascita di un duopolio dell'emittenza televisiva, tutt’altro che risolto dalla
«… spartizione puntualmente applicata (attraverso la lottizzazione fra i
partiti delle tre reti della azienda) dai vari consigli di amministrazione… con
il conseguente avvilimento delle professionalità» esistenti nella RAI (la
Repubblica, 9 febbraio 1984).
La necessità di difendere il pluralismo 'esterno'
dell'informazione evitando posizioni di monopolio o di oligopolio dei titolari
delle reti, e quello 'interno', tutelando la libertà degli operatori
dell'informazione, spiega perché Barile, nominato ministro dei Rapporti con il
parlamento nel governo Ciampi del 1993, ritenne indispensabile che il governo
si qualificasse attraverso una profonda riforma del sistema radiotelevisivo:
punto centrale di quella libertà di informare e di essere informati che non si
era mai compiutamente realizzata nella storia dell’Italia unita.
Per realizzare questo non facile obiettivo, Barile
chiese a Ciampi l'istituzione di uno speciale comitato dei ministri che fu
effettivamente nominato, il 4 giugno 1993, e fu composto da un presidente
(Barile stesso), dal sottosegretario alla presidenza Antonio Maccanico e da
quattro ministri: Leopoldo Elia, Sabino Cassese, Livio Paladin e Maurizio
Pagani. Il disegno di legge approvato dal comitato dei ministri modificava
radicalmente la cosiddetta legge Mammì (223/1990) sul sistema radiotelevisivo
spostando dal governo al Parlamento le funzioni di indirizzo e di controllo
sull'emittenza pubblica; impediva la creazione di posizioni dominanti nel
sistema radiotelevisivo e dell'informazione vietando, fra l’altro, ai privati
di essere titolari di più di una rete televisiva o radiofonica nazionale; prevedeva
la drastica riduzione della pubblicità televisiva e la commisurazione dei
canoni di concessione ai fatturati; introduceva principi e organi (ad esempio
un consiglio di sorveglianza) per assicurare la trasparenza della gestione
della RAI che avrebbe dovuto, in base alla nuova convenzione, assicurare la
priorità del servizio dell'informazione e garantire l'imparzialità dei
giornalisti non solo nei programmi informativi ma in tutte le trasmissioni.
Con vivo disappunto di Barile il disegno di legge
approvato dal comitato non fu mai portato alla discussione del Consiglio dei
ministri perché suscitò una fortissima opposizione nei maggiori partiti
(diventati gli 'azionisti di riferimento' della concessionaria pubblica), nella
Fininvest e nella stessa RAI, entrambe sostanzialmente appagate dalla
situazione di duopolio creata dalla legge Mammì. Il fronte degli oppositori
alla riforma del sistema dell'informazione fu, anzi, così ampio da costringere
il governo ad annullare la convocazione della conferenza nazionale sulla
radiotelevisione che era già stata annunciata per il novembre del 1993 e a
rinunciare anche all'emanazione di un decreto legge che avrebbe dovuto
introdurre severe sanzioni nel caso di violazioni della disciplina sulla
propaganda elettorale (cfr. Chimenti, 2004).
LA 'CRISI DELLA
REPUBBLICA'. I PARTITI, LA RIFORMA ELETTORALE E LE CONTROVERSIE CON IL
PRESIDENTE COSSIGA
Nella sua prefazione (del 1994) al libro di Carlo
Chimenti sull'esecutivo Ciampi, Barile, pur orgoglioso dell'esperienza di quel
governo, si sarebbe rammaricato dei risultati ottenuti non soltanto sul fronte
del sistema dell'informazione ma anche su quello della riforma elettorale.
Riforma che il governo aveva seguito e 'tallonato' ma rispetto alla quale,
coerentemente al mandato ricevuto, non era intervenuto nel merito. Anche alla
luce dei risultati delle elezioni del 1994, Barile definì penoso l’esito di
quella riforma perché, pur apprezzando l'introduzione del collegio uninominale
(da lui sostenuto dai tempi della Costituente) lamentò la rinuncia
all'introduzione del doppio turno, giudicato utilissimo «perché in tal modo… si
sarebbero formate, fra il primo e il secondo turno, coalizioni di partiti già
d’accordo per formare una maggioranza di governo».
Questo giudizio, pronunciato in occasione della
riforma elettorale maggioritaria che segnò il passaggio fra la prima e la
seconda Repubblica, deve essere collegato a una lunga riflessione sul ruolo dei
partiti che Barile cominciò agli inizi degli anni Ottanta quando il
centrosinistra, da lui giudicato con favore, iniziò a trasformarsi
nell'esperienza del 'pentapartito' nella quale la validità della forma di
governo parlamentare prevista dalla Costituzione iniziò a essere messa
seriamente in discussione da chi riteneva che l'elezione popolare diretta del
presidente della Repubblica e l’ampliamento delle sue funzioni avrebbero
rappresentato un valido antidoto alla 'crisi della Repubblica'.
Contro questa prospettiva Barile ribadì costantemente
la sua convinzione sulla permanente validità della figura costituzionale di un
presidente tenuto non a esercitare funzioni di indirizzo politico di
maggioranza ma, invece, a garantire essenzialmente la puntuale osservanza dei
valori e dei corretti comportamenti costituzionali da parte di tutti gli attori
politici. La chiarezza di questa concezione spiega perché Barile, sostenitore
di una riforma elettorale che avrebbe permesso agli elettori di incidere sulla
formazione dei governi (cfr. La crisi della Repubblica, in La
Repubblica, 18 aprile 1990), si opponesse fermamente, tra la fine
degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, alla proposta
presidenzialista avanzata dai socialisti, perché era convinto che l'elezione
popolare del presidente avrebbe snaturato la sua funzione di garante e avrebbe
condotto ad attribuirgli poteri analoghi a quelli del presidente francese.
La convinzione di Barile della necessità di ancorare
il ruolo del presidente della Repubblica a quello di garante del corretto
funzionamento delle istituzioni, così come individuato dai costituenti, si
rafforzò durante il settennato di Francesco Cossiga, da lui fortemente
criticato fin dal suo messaggio alle Camere del 1991 nel quale si ipotizzavano
radicali modifiche alla Costituzione attraverso l'attribuzione di poteri
costituenti al Parlamento o mediante l'elezione di una nuova assemblea
costituente. Il dissenso di Barile divenne ancora più netto quando, con una
serie di comportamenti più che discutibili (dalla autodenuncia sul 'caso
Gladio' al preannuncio del rifiuto di promulgazione di alcune leggi, o della
'apertura di dossier segreti') il presidente si fece portatore di un indirizzo
politico proprio, diverso e anche contrastante con quello del Parlamento e del
governo, fino a sfiorare quel reato di attentato alla Costituzione che, come ricordò
Barile, si realizza anche attraverso il solo intento di colpire o di turbare il
corretto funzionamento delle istituzioni repubblicane. Quelle critiche
divennero ancora più forti quando Cossiga sembrò abbandonare il ruolo di
garante della stessa separazione dei poteri fra esecutivo e giudiziario
impedendo al CSM di replicare alle aspre critiche espresse dal presidente del
Consiglio Craxi al tribunale di Milano che aveva condannato l’Avanti! per
la diffamazione di un pubblico ministero.
Lo scontro con Cossiga divenne poi radicale quando,
nel 1997, fu istituita la Commissione bicamerale per le riforme istituzionali.
Su quella vicenda Barile intervenne ripetutamente (si veda una raccolta dei
suoi brillanti interventi giornalistici in Tra Costituzione e riforme,
2001) sia nel merito che nel metodo delle riforme proposte. Nel metodo, netto
fu il suo dissenso da Cossiga quando il presidente ipotizzò un referendum
popolare sull'istituzione della Bicamerale e aggiunse che la sua mancata
istituzione avrebbe significato l'implicita approvazione da parte del corpo
elettorale della elezione di una nuova assemblea costituente.
Contro questi suggerimenti, da Barile considerati
irresponsabili in quanto volti a cancellare del tutto il principio della
rigidità della Costituzione e della sua continuità storica, Barile scrisse
pagine durissime, ma altrettanto netta fu la contrarietà alla legge istitutiva
della Bicamerale, che prevedeva l'effettuazione di un unico referendum
confermativo sulle riforme adottate dalla stessa Bicamerale. In quell'occasione
Barile ricordò che, secondo la dottrina elaborata dalla Corte sui referendum
abrogativi, i quesiti avrebbero dovuto essere omogenei ma questo non sarebbe
stato, invece, possibile nel momento nel quale il corpo elettorale sarebbe
stato chiamato «… ad approvare riforme istituzionali così diverse fra loro».
Al di là del metodo delle riforme, rimase fermo il
disaccordo di Barile sulla principale innovazione introdotta dalla Bicamerale
nella forma di governo: l'elezione popolare diretta del presidente della
Repubblica, pur in un quadro di poteri non molto diverso da quello previsto
dalla Costituzione del 1948, perché l'elezione diretta avrebbe comunque
condotto, da sola, alla creazione di 'un organo nuovo', dominus o
prigioniero della maggioranza che lo avrebbe sostenuto nella sua elezione.
Organo politico, dunque, e non di garanzia, e destinato per di più a entrare in
conflitto con gli altri organi di indirizzo politico esistenti: il governo e il
Parlamento.
La difesa dell’impianto originario della Costituzione
e della forma di governo parlamentare, la riforma delle leggi elettorali per
consentire ai cittadini una scelta non simbolica dei loro rappresentanti, la
riforma del sistema dei partiti in attuazione dell’art. 49 della Costituzione
costituirono dunque, per quel che riguarda la forma del governo costituzionale,
i costanti punti di riferimento ai quali Barile rimase costantemente fedele.
Le battaglie da lui combattute nell’ultimo ventennio
della sua vita si svolsero, però, non soltanto sul rassicurante terreno
scientifico ma anche su quello più controverso e opinabile della politica; ed è
importante, perciò, cercare di chiarire quale sia stato il suo rapporto con la
politica e i partiti dopo la sua convinta adesione al Partito d’azione. Dopo lo
scioglimento del Partito, Barile non si iscrisse ad altre formazioni politiche
ritenendo, come molti ex azionisti, di essere rimasto un militante 'senza
patria' della sinistra italiana, finché la sua vicinanza a Giolitti, ad Arrigo
Benedetti, a Eugenio Scalfari e agli altri 'Amici del Mondo', poi fondatori
de L'Espresso, lo portarono a impegnarsi nella politica nel modo a
lui più congeniale: l’impegno critico continuo e attento sulle vicende
politiche e istituzionali italiane che egli esercitò prima nelle rubriche de
L'Espresso e poi su quelle de la Repubblica.
È da ricordare, però, che accanto a quel tipo di
impegno, Barile non rifuggì dall’assumersi responsabilità più dirette quando
sembrarono delinearsi svolte politiche che avrebbero potuto essere importanti
per la società italiana. Questo accadde, ad esempio, quando parve prospettarsi
la possibilità, poi tramontata, di un'alternativa di sinistra al più che
trentennale predominio della Democrazia cristiana. In quel clima, Barile rispose
positivamente alle richieste che gli pervennero dal mondo della sinistra
fiorentina accettando di candidarsi nelle liste del Partito comunista italiano
(PCI) per il Consiglio comunale di Firenze del 1985, elezioni che portarono
alla nomina a sindaco del suo amico Massimo Bogianckino, già sovrintendente del
Maggio musicale e capolista del PSI. In quella tornata amministrativa, Barile
assunse, anche se per breve tempo, la carica di capo del gruppo consiliare del
PCI.
La delusione per quanto accadde dopo: il 'compromesso
storico', la progressiva perdita da parte del PSI della sua identità originaria
e i ritardi con i quali il Partito di Berlinguer si mosse sulla strada del
riformismo democratico, lo indussero anni dopo a dichiarare che la sua partecipazione
come ministro per i Rapporti con il Parlamento al governo Ciampi era avvenuta
per la sua profonda solidarietà al suo antico compagno azionista e in nome di
quegli ideali, ma non come politico bensì come 'puro tecnico' delle
istituzioni. Tre anni dopo, nel 1996, sostenne invece il tentativo dell’Ulivo
ritenendo che potesse corrispondere a quel modello inclusivo e plurale della
sinistra che era stato proprio del suo vecchio, e amatissimo, Partito d’azione.
Paolo Barile morì a Firenze il 1° giugno 2000. Nel
1991 aveva subito a Boston un delicato intervento chirurgico, che riuscì
felicemente e gli consentì ancora quasi dieci anni di vita serena e operosa.
Opere citate. Orientamenti per la Costituente,
Firenze 1945; La Costituzione come norma giuridica, Firenze
1951; Il soggetto privato nella Costituzione italiana, Padova
1953; Corso di diritto costituzionale, Padova 1962; La
libertà di manifestazione del pensiero, Milano 1975; Diritti
dell’uomo e libertà fondamentali, Bologna 1984; Gli enti lirici fra
crisi e riforma, a cura di P. Barile - S. Merlini, Firenze 1984; Libertà,
giustizia e Costituzione, Padova 1993; Tra Costituzione e riforme,
a cura di R. Cassigoli - P. Barile, Firenze 2001.
//www.treccani.it/enciclopedia/paolo-barile_%28Dizionario-Biografico%29/
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