Chi, come me, lavora in
ospedale sa che spesso si effettuano interventi chirurgici demolitivi su
pazienti che un tempo sarebbero stati considerati, e in effetti sono,
incurabili. Ma la volontà di potenza di qualche chirurgo è tale da considerare
un successo “donare” due, tre, sei mesi di vita, generati dalla loro
stupefacente opera tecnica. Senza porsi il problema di “quale” vita riescono a
donare, non si preoccupano di quante speranze attivano nei malati, che in breve
tempo le vedranno deluse. I mezzi che la tecnica ha messo a disposizione ci
hanno tolto il senso del limite e la misura umana. Io faccio l’infermiera, sono
nelle stanze di quei pazienti quando certi chirurghi, ormai stufi dei loro
giocattoli, neanche ci entrano più.
Lettera firmata
La medicina occidentale nasce nel V
secolo a.C. come medicina “geocentrica”, dove le condizioni di salute erano
valutate in base all’ambiente in cui si viveva e l’attenzione era rivolta, come
insegna Ippocrate fondatore della Scuola medica di kos, all’aria che si
respira, all’acqua che si beve, ai cibi con cui ci si alimenta, ai luoghi in
cui si vive. Poca cosa? Non direi considerando quanta nocività c’è oggi
nell’aria, nell’acqua, nei cibi che assumiamo, nei luoghi che abitiamo. Ma
siccome l’inquinamento è dato per assodato e irreversibile, ci si limita a
fissare dei parametri di tolleranza di cui si occupano, quando se ne occupano,
le nostre amministrazioni, senza che questi fattori siano presi in seria
considerazione dalla professione medica che più non li ritiene di sua
competenza. Fu così che la medicina abbandonò lo sguardo geocentrico per
proporsi come medicina “morbo centrica”, nella quale lo sguardo medico non è
più rivolto all’uomo, come lei osserva, ma alla malattia da affrontare in modo
scientifico, dove per “scienza” s’intende un sapere oggettivante, valido per
tutti, riproducibile ovunque, da chiunque, con il medesimo risultato. (..).
Quando i pazienti lamentano la “scarsa umanità” di certi medici, anche se non
lo sanno stanno lamentando lo sguardo esclusivamente morbo centrico di chi li
cura, per cui non si sentono più persone, ma solo “ rappresentanti d’organo”, a
cui si rivolge lo sguardo medico. (..)che non può limitarsi a utilizzare i suoi
protocolli costruiti sulla media dei percorsi morbosi, ma deve coraggiosamente
utilizzare la sua intuizione per valutare se il paziente si trova al centro, o
all’inizio o alla fine di un’ipotetica curva di Gauss che richiede una
variazione nell’applicazione del protocollo. (..) non è il caso di abusare di
un eccesso di interventi tecnologici che allungano, tra non poche sofferenze,
la vita, creando nei pazienti illusioni che alimentano solo la disperazione
finale. E’ il caso per esempio di quegli oncologi che, dopo aver sperimentato
di tutto, quando perdono ogni speranza non si fanno più vedere dai loro
pazienti e si fanno sostituire dai medici che praticano le cure palliative.
Inequivocabile annuncio di morte quando ancora si è in vita. Di qui
l’importanza di passare da una medicina morbo centrica a una antropocentrica
che abbia in vista l’uomo, i suoi vissuti, le sue speranze, le sue ansie e non
solo la sua malattia. Anche perché, come ci insegna Michel Foucault: “Non si
muore perché ci si ammala, ma ci si ammala perché fondamentalmente dobbiamo
morire”.
umbertogalimberti@repubblica.it
– Donna di Repubblica – 28 Novembre 2015 -
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