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giovedì 15 ottobre 2015

Lo Sapevate Che: Venticinque anni è il momento di essere se stessi...



Sono cresciuta credendo di avere un carattere sbagliato e con l’idea di non essere in grado di condurre una vita serena e di valore come altri. Non è colpa mia. Che di dovere, nelle fasi di crescita e di formazione del carattere, non è stato capace nei momenti di difficoltà di dirmi che avevo le capacità per farcela a superare le avversità. Sentivo tutte le loro frustrazioni e attenzioni su di me, e io ero silente. A volte credo di aver contribuito a questa dinamica malsana non riuscendo a comunicare le mie paure. Ma un bambino ha veramente coscienza delle proprie paure, ed è in grado di esprimerle a dei genitori che ti vogliono tenace e vincente? Benchè io sia consapevole di questo, oggi, a 25 anni non riesco a utilizzare questa consapevolezza per cambiare la percezione che ho di me stessa. Non posso fare a meno di sentirmi responsabile e in colpa per questo. Perché non riesco a espiare questo senso di colpa nei miei confronti e a vedere il mondo come un posto piacevole e non come un pubblico sempre giudicante?     Anonima.
Nella struttura della famiglia circola spesso un improprio aggettivo possessivo che fa dire all’uomo “mia moglie”, alla donna “mio marito”, a entrambi i genitori “mio figlio” o “mia figlia”, quando nella relazione tra individui che hanno deciso di condurre una vita insieme, e insieme di generare, di “mio” non dovrebbe esserci proprio nulla. Infatti l’unica condizione perché nel nucleo familiare possa circolare l’amore è il riconoscimento dell’alterità dell’altro, e non la sua percezione limitatamente a come io vorrei che fosse, con conseguente negazione della sua individualità e la sua riduzione a semplice soddisfazione dei miei desideri o delle mie aspettative. Questo principio vale innanzitutto per tutte le persone che un giorno hanno deciso di condividere la loro esistenza, perché ciascuno dei due aveva incontrato un “altro” che l’aveva affascinato per la semplice ragione che esprimeva ciò che mancava alla propria personalità: E solo rispettando questa alterità l’altro può continuare a incuriosirmi e affascinarmi, mentre se dell’altro vedo solo ciò che risponde alle mie esigenze ripiombo nella solitudine della mia individualità. (..). Questa mancanza  di rispetto dell’alterità dell’altro spesso si esercita anche nei confronti dei figli, a causa di un fraintendimento radicale del concetto di educazione, che non significa condurre i figli ad assecondare le nostre aspettative, ma accompagnarli nella scoperta della loro natura che, per il fatto che sono nati da noi, non significa che coincida con la nostra. Quante raccomandazioni ossessive, quanti rimproveri e quante punizioni dipendono dal fatto che il loro modo di crescere non coincide con quanto ci aspettiamo da loro secondo i nostri parametri, che magari mal si adattano alla loro indole che per giunta mai ci siamo dati la premura di capire (..). Lei, cara lettrice, probabilmente è stata vittima di questo conflitto. E il senso d’inadeguatezza che ancora la fa soffrire altro non è che il riprodursi a livello sociale di quanto ha vissuto in ambito familiare dove, per assecondare le aspettative dei suoi genitori, doveva negare la sua indole, mentre se avesse voluto esprimerla, avrebbe dovuto configgere con loro in una età in cui non aveva la forza di farlo. Ma ora, a 25 anni, penso sia suo dovere assecondare la sua natura, senza per questo odiare i suoi genitori, puro spreco di energia che va invece convogliata nella ricerca di sé.
umbertogalimberti@repubblica.it – La Donna di Repubblica – 10 ottobre – 2015 -

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