Sono cresciuta credendo
di avere un carattere sbagliato e con l’idea di non essere in grado di condurre
una vita serena e di valore come altri. Non è colpa mia. Che di dovere, nelle
fasi di crescita e di formazione del carattere, non è stato capace nei momenti
di difficoltà di dirmi che avevo le capacità per farcela a superare le
avversità. Sentivo tutte le loro frustrazioni e attenzioni su di me, e io ero
silente. A volte credo di aver contribuito a questa dinamica malsana non
riuscendo a comunicare le mie paure. Ma un bambino ha veramente coscienza delle
proprie paure, ed è in grado di esprimerle a dei genitori che ti vogliono
tenace e vincente? Benchè io sia consapevole di questo, oggi, a 25 anni non riesco
a utilizzare questa consapevolezza per cambiare la percezione che ho di me
stessa. Non posso fare a meno di sentirmi responsabile e in colpa per questo.
Perché non riesco a espiare questo senso di colpa nei miei confronti e a vedere
il mondo come un posto piacevole e non come un pubblico sempre giudicante? Anonima.
Nella struttura della famiglia circola spesso un improprio
aggettivo possessivo che fa dire all’uomo “mia moglie”, alla donna “mio
marito”, a entrambi i genitori “mio figlio” o “mia figlia”, quando nella
relazione tra individui che hanno deciso di condurre una vita insieme, e
insieme di generare, di “mio” non dovrebbe esserci proprio nulla. Infatti l’unica
condizione perché nel nucleo familiare possa circolare l’amore è il
riconoscimento dell’alterità dell’altro, e non la sua percezione limitatamente
a come io vorrei che fosse, con conseguente negazione della sua individualità e
la sua riduzione a semplice soddisfazione dei miei desideri o delle mie
aspettative. Questo principio vale innanzitutto per tutte le persone che un
giorno hanno deciso di condividere la loro esistenza, perché ciascuno dei due
aveva incontrato un “altro” che l’aveva affascinato per la semplice ragione che
esprimeva ciò che mancava alla propria personalità: E solo rispettando questa
alterità l’altro può continuare a incuriosirmi e affascinarmi, mentre se
dell’altro vedo solo ciò che risponde alle mie esigenze ripiombo nella
solitudine della mia individualità. (..). Questa mancanza di rispetto dell’alterità dell’altro spesso
si esercita anche nei confronti dei figli, a causa di un fraintendimento
radicale del concetto di educazione, che non significa condurre i figli ad assecondare
le nostre aspettative, ma accompagnarli nella scoperta della loro natura che,
per il fatto che sono nati da noi, non significa che coincida con la nostra.
Quante raccomandazioni ossessive, quanti rimproveri e quante punizioni
dipendono dal fatto che il loro modo di crescere non coincide con quanto ci
aspettiamo da loro secondo i nostri parametri, che magari mal si adattano alla
loro indole che per giunta mai ci siamo dati la premura di capire (..). Lei,
cara lettrice, probabilmente è stata vittima di questo conflitto. E il senso
d’inadeguatezza che ancora la fa soffrire altro non è che il riprodursi a
livello sociale di quanto ha vissuto in ambito familiare dove, per assecondare
le aspettative dei suoi genitori, doveva negare la sua indole, mentre se avesse
voluto esprimerla, avrebbe dovuto configgere con loro in una età in cui non
aveva la forza di farlo. Ma ora, a 25 anni, penso sia suo dovere assecondare la
sua natura, senza per questo odiare i suoi genitori, puro spreco di energia che
va invece convogliata nella ricerca di sé.
umbertogalimberti@repubblica.it
– La Donna di Repubblica – 10 ottobre – 2015 -
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