In una bella giornata di sole, nel
tardo autunno del 2005, Jean Boockout, al volante con l’amica Barbara Schwarz
accanto, viaggiava ben al di sotto del limite di velocità sull’autostrada
numero 40, verso Oklahoma City. L’automobile era nuova, il tempo perfetto, la
patente di Jean immacolata, dopo diciotto anni senza multe o incidenti. Erano
le quattro del pomeriggio, quando l’auto imboccò la rampa di uscita, fermandosi
all’incrocio con il semaforo della strada locale. Ma qualche cosa accadde: al
momento di rallentare, la macchina scattò invece in avanti, accelerando e
rifiutandosi di frenare. Jean e l’amica attraversarono contro un muro. Lei si
salvò la vita. L’amica la perse. Due anni dopo la gigantesca casa giapponese
che aveva fabbricato la macchina, accettò di pagare tre milioni di dollari. I
perii che esaminarono la centralina elettronica del motore definirono le
migliaia e migliaia di righe di comandi nel programma, “una zuppiera di
spaghetti”. Dunque non era stata la guidatrice umana, ma era stato il computer
di bordo, il cervello artificiale che controlla ormai le nostre automobili, ad andare in confusione
e a dare i comandi sbagliati. (..). Nei modelli più costosi e sofisticati, ma
via via anche in quelli più economici, quel cervello arriva a contenere 100
milioni di righe di programma, più di quante ne contengano quei computer
tascabili che ancora qualcuno chiama telefonini, calcola il professor Schwetak
Patel che studia l’informatica applicata alle automobili all’Università di
Washington. E ogni riga di quelle 100 milioni, essendo compilata da
programmatori umani, dunque fallibili, può contenere l’errore che spedisce la
signora Bookout contro un muro. O magari, come è avvenuto in California, spegnere
il motore nella corsia di mezzo dell’autostrada dopo avere capito, nella sua
testolina, che il guidatore è in ritardo con il pagamento delle rate o ha
troppe contravvenzioni in sospeso, perché attraverso Internet comunica con la
banca creditrice o con il Comune. L’automobile senza pilota è già una realtà. I
modelli sperimentali circolano sulle strade americane provocando incidenti
perché la “scatola nera” rispetta rigorosamente le norme del codice, inchioda i
freni quando vede scattare il giallo, rispetta tutti gli stop fino all’arresto
completo, rallenta in osservanza dei limiti di velocità e finisce per essere
impietosamente tamponata dai guidatori umani. Ha, sugli umani, il vantaggio che
non si mette il rossetto mentre viaggia a cento all’ora, non si abbevera a
secchi di caffè o di bibite, non si accende sigarette, non ascolta
radiocronache di partite, non tenta di mandare o leggere sms mentre sorpassa un
Tir sotto la pioggia e non dimentica mai dove ha messo le chiavi. Da noi umani,
ha preso il vizietto di barare al gioco, come ha dimostrato il caso dei motori
diesel che mentivano per ordine del cervellino informatico, ma in compenso non
pretende che si faccia conversazione e non rimprovererà mai a nessuno di non
dargli ascolto. Ed è neutro, non femmina, non trans, anche se ricerche indicano
che in futuro, come già accade con i navigatori Gps, i clienti maschi
preferiranno un robot con la voce di donna. In caso di incidente, potranno
sempre dire: ve l’avevo detto io, che delle donne al volante non ci si può
fidare.
Vittorio Zucconi – Donna di Repubblica – 10 ottobre 2015 -
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