Su “Repubblica” di venerdì 2 ottobre è uscita
un’intera pagina della Cultura scritta da Toni Servillo e intitolata “Il mio
Actors Studio è un sogno junghiano”. E’ una pagina splendida nella scrittura e
perfetta nei pensieri. Il tema è affascinante: chi è l’attore, in che modo
interpreta i personaggi che il testo gli affida e quali conseguenze ne derivano
per la sua privata personalità. La risposta di Servillo a questa domanda è
plurima, ma la tesi centrale riguarda l’Io. Un’interpretazione corretta
presuppone che l’Io si indebolisca fino
a scomparire del tutto con la conseguenza di consentire all’attore di
trasformarsi completamente nel personaggio descritto nel testo. Ma esistono
anche attori in cui Io resta predominante; in quel caso il personaggio
descritto dal resto è quello dell’attore. Se per esempio si tratta dell’Amleto
shakespeariano, l’attore pensa e spesso dice esplicitamente “io sono Amleto”.
Quale di queste due figure d’attore è
per Servillo la più adatta a rappresentare quella drammaturgia? Ma Servillo non
si ferma qui e introduce un altro elemento non meno importante: “Noi”, cioè
l’influenza che l’attore avverte e che
in qualche modo incide sulla sua recitazione, proveniente dal pubblico presente
in teatro. Il “Noi” descrive appunto il rapporto tra attore e spettatore;
l’attore lo sente nel profondo di se stesso e recita di conseguenza. Conosco
bene Toni Servillo, ho assistito ad alcune sue “Pieces” teatrali ed ho visto
gran parte dei suoi film. Il cinema naturalmente è tutt’altra cosa: la stessa
scena viene spesso ripetuta più volte dal regista di teatro) ma alla fine la
scena che il regista ritiene perfetta sarà quella che apparirà sullo schermo e
tale rimarrà; il pubblico non è presente e quindi il “Noi” non esiste. Quanto
all’Io, quello del regista è pari e spesso subordina quello dell’attore la cui
bravura è di saperlo tradurre il più fedelmente possibile dinanzi alla macchina
da presa. La drammaturgia vera e propria è dunque quella teatrale che ha i suoi
antecedenti nella tragedia greca e nei miti che la dominano. La tesi di
Servillo, che tutte le espone nel suo articolo, mi sembra quella
dell’evanescenza dell’Io, aggiungendovi
poi la triste solitudine che quell’evanescenza lascia nell’animo dell’attore quando riprende la sua privatezza: una
solitudine dolorosa, un vuoto che resta dentro stimolando sogni e pensieri.
L’Io non scompare ma affonda nella zona dell’inconscio. Di qui Jung e l’importanza
dei sogni.(..). Una tesi dello “Zarathustra” nietzschiano, ripresa in modo
ancor più drammaticamente chiaro nell’”Ecce Homo” è il relativismo della
conoscenza, la mutevolezza continua della’autocoscienza, l’interpretazione come
manifestazione delle contraddizioni insite nella nostra specie di animale
pensante.“Ecco Homo” fu scritto qualche settimana prima che Nietzsche cadesse in preda alla follia che
era già presente dentro il suo sé. Questo significa che la conoscenza come
interpretazione soggettiva d’una realtà continuamente mutevole non ha alcun
punto fisso da agganciarsi se non un Divino trascendente, anch’esso però
inventato da noi nel tentativo di darci un punto di riferimento. Ma essendo da
noi creato, quel punto fisso non è fisso affatto. Servillo termina il suo
articolo descrivendo la tomba di Yasujiro Ozu, grande maestro del cinema
giapponese, sulla quale c’è soltanto il nome del corpo che giace in quel
sepolcro e, sotto al nome, la parola “Nulla”. Si potrebbe aggiungere “In
pulverem reverteris”. Oppure il motto di Eraclito: “Tutto scorre nulla permane”.
Eugenio Scalfari – Il vetro soffiato www.lespresso.it – L’Espresso – 15 ottobre
2015 -
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