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lunedì 19 ottobre 2015

Lo Sapevate Che: Dove si nasconde l'"Io" dell'attore...



Su “Repubblica” di venerdì 2 ottobre è uscita un’intera pagina della Cultura scritta da Toni Servillo e intitolata “Il mio Actors Studio è un sogno junghiano”. E’ una pagina splendida nella scrittura e perfetta nei pensieri. Il tema è affascinante: chi è l’attore, in che modo interpreta i personaggi che il testo gli affida e quali conseguenze ne derivano per la sua privata personalità. La risposta di Servillo a questa domanda è plurima, ma la tesi centrale riguarda l’Io. Un’interpretazione corretta presuppone che l’Io si indebolisca  fino a scomparire del tutto con la conseguenza di consentire all’attore di trasformarsi completamente nel personaggio descritto nel testo. Ma esistono anche attori in cui Io resta predominante; in quel caso il personaggio descritto dal resto è quello dell’attore. Se per esempio si tratta dell’Amleto shakespeariano, l’attore pensa e spesso dice esplicitamente “io sono Amleto”. Quale di queste due figure  d’attore è per Servillo la più adatta a rappresentare quella drammaturgia? Ma Servillo non si ferma qui e introduce un altro elemento non meno importante: “Noi”, cioè l’influenza che l’attore avverte  e che in qualche modo incide sulla sua recitazione, proveniente dal pubblico presente in teatro. Il “Noi” descrive appunto il rapporto tra attore e spettatore; l’attore lo sente nel profondo di se stesso e recita di conseguenza. Conosco bene Toni Servillo, ho assistito ad alcune sue “Pieces” teatrali ed ho visto gran parte dei suoi film. Il cinema naturalmente è tutt’altra cosa: la stessa scena viene spesso ripetuta più volte dal regista di teatro) ma alla fine la scena che il regista ritiene perfetta sarà quella che apparirà sullo schermo e tale rimarrà; il pubblico non è presente e quindi il “Noi” non esiste. Quanto all’Io, quello del regista è pari e spesso subordina quello dell’attore la cui bravura è di saperlo tradurre il più fedelmente possibile dinanzi alla macchina da presa. La drammaturgia vera e propria è dunque quella teatrale che ha i suoi antecedenti nella tragedia greca e nei miti che la dominano. La tesi di Servillo, che tutte le espone nel suo articolo, mi sembra quella dell’evanescenza  dell’Io, aggiungendovi poi la triste solitudine che quell’evanescenza lascia nell’animo dell’attore  quando riprende la sua privatezza: una solitudine dolorosa, un vuoto che resta dentro stimolando sogni e pensieri. L’Io non scompare ma affonda nella zona dell’inconscio. Di qui Jung e l’importanza dei sogni.(..). Una tesi dello “Zarathustra” nietzschiano, ripresa in modo ancor più drammaticamente chiaro nell’”Ecce Homo” è il relativismo della conoscenza, la mutevolezza continua della’autocoscienza, l’interpretazione come manifestazione delle contraddizioni insite nella nostra specie di animale pensante.“Ecco Homo” fu scritto qualche settimana prima che  Nietzsche cadesse in preda alla follia che era già presente dentro il suo sé. Questo significa che la conoscenza come interpretazione soggettiva d’una realtà continuamente mutevole non ha alcun punto fisso da agganciarsi se non un Divino trascendente, anch’esso però inventato da noi nel tentativo di darci un punto di riferimento. Ma essendo da noi creato, quel punto fisso non è fisso affatto. Servillo termina il suo articolo descrivendo la tomba di Yasujiro Ozu, grande maestro del cinema giapponese, sulla quale c’è soltanto il nome del corpo che giace in quel sepolcro e, sotto al nome, la parola “Nulla”. Si potrebbe aggiungere “In pulverem reverteris”. Oppure il motto di Eraclito: “Tutto scorre nulla permane”.
Eugenio Scalfari – Il vetro soffiato www.lespresso.it – L’Espresso – 15 ottobre 2015 -

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