E Cinque. Niente da fare, chi tocca la spending review muore.
Politicamente, s’intende. Nel senso che scompare, lascia, abbandona l’impresa
di riportare sotto controllo la spesa pubblica, o magari è costretto a rinunciarvi.
E qui non si parla di sprovveduti piovuti giù dal cielo, ma di professori,
illustri economisti, esperti del ramo abituati a navigare in acque tempestose.
In principio fu Piero Giarda, restò in carica per un anno, poi nel 2012 Mario
Monti gli affiancò Enrico Bondi. Uno è poco e due sono troppi? Comunque dopo un
anno molla pure lui, che prima si era sciroppato, per dire, Montedison e
Parmalat. Si ricomincia, 2013, strada spianata per Mario Canzio, ex ragioniere
generale dello Stato: dura dieci mesi appena; e allora si prova con un oriundo,
Carlo Cortarelli, alto dirigente del Fondo monetario internazionale, non si
scherza, questo ce la farà, no? Macché, dopo meno di un anno se ne torna a
Washington. Così si arriva a Roberto Perotti, eccellente economista, che si
divide il compito con Yoram Gurgeld, deputato Pd e consigliere economico del
premier: ma oggi, solo sei mesi dopo la nomina, gira voce che abdichi anche
lui. Così è, a un certo punto il tecnico si ferma in attesa di un sincero
sostegno politico. Che spesso non arriva. (..). E’ come se ogni volta ministri
e presidenti si fossero detti: “Ne
parliamo più in là…”. Anche la riduzione dei tassi di interesse, e dunque il
minor costo del debito, offerta dalla grande liquidità riversata nel sistema da
Mario Draghi (quantitative easing), non è stata sfruttata. Avvenne qualcosa di
simile con il passaggio dalla lira all’euro e l’abbattimento del costo del
denaro che ne derivò: tra il 2002 e il 2009, cioè negli anni immediatamente
successivi, la spesa pubblica aumentò del 39 per cento. Occasioni perse. Ma, Per Capire
come stanno le cose bisogna scendere un po’ più nel dettaglio. In realtà, negli
ultimi anni molta spesa è stata tagliata, altra no. Per esempio si è dimezzata
la spesa in conto capitale, cioè metà delle risorse destinate a opere pubbliche
e infrastrutture, investimenti che però incidono molto sulla crescita
dell’economia. Sotto controllo è anche la spesa al netto degli interessi sul
debito (più 1 per cento, contro il 4 degli anni passati), e anche quella
corrente che garantisce il funzionamento dei servizi pubblici. Allora, dov’è
che invece si spende sempre di più? Per pensioni e sanità, naturalmente:
invecchiamento della popolazione, automatismi e adeguamenti hanno pesato più
delle riforme continue e dei relativi tagli. Insomma, nonostante tutto,
qualcosa si è fatto. Ma dov’era più facile, politicamente meno doloroso, e
comunque non abbastanza, anche perché altri impegni incombono se si vuole
evitare che da qui al 2018 scattino le cosiddette clausole di garanzia per
50miliardi, insomma le multe sotto forma di aumento automatico di imposte
previste da Bruxelles in caso di mancato rispetto dei parametri europei: di
rinvio in rinvio, alla fine il conto si paga. E dunque, che fate? Tagliare
ancora. Pensione e sanità? Troppo facile, ma sconsigliabile. Devolvere servizi
privati? Non offrono alcuna garanzia. Allora? L’unica strada sarebbe proprio
quella di ricominciare dalla derelitta spending review, abbandonando però
facili illusioni e falsi annunci. Qui più che un uomo solo occorrerebbe una
squadra di tagliatori a ciascuno dei quali affidare una fetta della pubblica
amministrazione da analizzare e ripulire, ghostbuster a caccia non di fantasmi
ma di sprechi e costi da abbattere. Messi in condizione di lavorare e
sottoposti a un’unica guida. Non tecnica ma politica. Finora è mancata. Per
scelta di comodo.
Bruno Manfellotto – Questa settimana www.lespresso.it
- @bmanfellotto -29 ottobre 2015 -
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