Caro signor Galimberti,
come lei asserisce: “Amare perdutamente può fare male”. Ma, mi permetta, allo
stesso tempo può fare bene. Quando dà l’occasione di prendere coscienza delle
proprie manchevolezze e immaturità, se la perdita dolorosa non è vissuta come
offesa e colpa dell’altro che non ha responsabilità nell’essere stato
idealizzato, può essere salvifica, uno sprone a migliorarsi, a crescere, ad
acquisire autostima in un percorso di crescita umana e culturale. Forse quasi
mai si presenta una nuova occasione di mostrare alla persona un tempo
idealizzata e tanto amata la maturità raggiunta e l’accresciuto valore, ma
anche così è una grande opportunità. Se per un caso più unico che raro questo
avviene, è un grande regalo del destino. E riuscire a conquistare l’amore, un
tempo tanto desiderato, non ha niente a che fare col bisogno di risanare un
narcisismo offeso, ma soltanto con la consapevolezza di aver conquistato
qualcosa di veramente grande e importante. Perdoni, signor Galimberti, la
presunzione d’insegnarle qualcosa, Lei insegna nel suo articolo le strade da
non seguire dopo un’esperienza d’amore finita dolorosamente, ma ha mancato di
suggerire una possibile via di arricchimento. Forse veramente non può più
capire una passione che – giovanile o no – c’è sempre, E mi dispiace veramente
per lei. Lettera non firmata
La passione non è cieca come i più
ritengono, ma, come scriveva Stendhal: “è visionaria”. Se l’amato non rientra
nella visione, o come lei opportunamente la chiama, nell’idealizzazione che
l’amante appassionata si è fatta di lui, l’abbandono o, come più comunemente lo
s’intende, il tradimento finisce per essere inevitabile. Di solito in occasione
di un tradimento le accuse sono ricolte al traditore e il tradito si raccoglie
incupito nelle sue fantasie di vendetta (..). Oppure si manifesta nella
svalutazione dell’altro, a suo tempo idealizzato, e la passione visionaria di
un tempo, che non voleva vedere gli aspetti umbratili dell’altro, si traduce in
un odio cieco che non alimenta l’anima ma la ammala. O ancora, si cerca rifugio
in un cinismo cosmico, per il quale l’amore non esiste ed è solo l’inganno di
un giorno. (..). Lei ha scelto un’altra via, quella dell’esame di sé, che – se
non assume i toni dell’autoaccusa o dell’autocritica troppo crudele, ai limiti
del masochismo, porta alla maturazione di sé che consente di abbandonare la
beata innocenza infantile della fiducia incondizionata, per acquisire quella
coscienza adulta. (..). Dalla sua lettera mi pare che lei abbia imparato che
essere in una relazione d’amore non vuol dire annullarsi nell’altro, perché la
relazione non è una fusione che annulla la nostra individualità, persa la quale
finiamo col non sapere più chi siamo e, abbandonati dal nostro sentimento,
veniamo invasi dal risentimento che ci acceca, quello sì, fino a far compiere a
volte gesti atroci. Mentre quando lei percorre la via dell’auto-riconoscimento,
come mi descrive nella sua lettera, scopre che l’amore non è possesso, e che
nella vita a due che si rimpiange forse non si viveva l’amore, ma si cercava
solo tutela e sicurezza, da cui l’abbandono ci emancipa. Se non cadiamo nelle
vie più battute che sopra abbiamo descritto, è proprio l’abbandono che ci offre
l’opportunità di una vera conoscenza di sé, che ci evita di vivere una vita a
nostra insaputa. Sembra infatti che la vita preferisca chi ha incontrato se
stesso a chi ha evitato di farlo per vivere al sicuro in una casa protetta.
umbertogalimberti@repubblica.it
– Donna di Repubblica – 24 ottobre 2015 -
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