Se si è fermamente
persuasi che abortire, in caso di concepimento a seguito di stupro oppure nel
caso in cui il concepito sia portatore di gravissime malformazioni, vada contro
la volontà di Dio, automaticamente ci si libera della responsabilità morale
verso la donna che non desidera portare avanti una gravidanza diventata per lei
un tormento. La sua sofferenza non ci riguarda: è Dio che vuole così, e la
responsabilità in qualche modo è di Dio. Ugualmente, se si è persuasi che
interrompendo le cure a un malato terminale, oppure procurando la dolce morte a
colui che la invoca disperatamente, si vada contro la volontà do Dio, non ci si
sente moralmente responsabili del
protrarsi della loro inutile sofferenza. Così può avvenire che un Testimone di
Geova lasci morire un figlio, essendo fermamente persuasi che Dio non voglia
trasfusioni di sangue, senza sentirsi responsabile della sua morte. In passato
non ci si sentiva responsabili delle sofferenze immani di eretici torturati e
mandati al rogo: non torturarli e non condannarli avrebbe significato andare
contro la volontà di Dio. Certo, tra lasciar soffrire in nome di Dio, c’è
differenza, ma l’atteggiamento è identico: ci si riguardi di colui che soffre.
Oggi accade ancora, che si possano compiere azioni crudelissime e non
sentirsene minimamente responsabili, Tutti in buona fede. Tutti persuasi di
fare la volontà di Dio. Intanto però nei riguardi delle vittime si calpesta il
comandamento dell’amore verso il prossimo. Si va contro la volontà di Dio.
Francesca Riveiro ribesca@tiscali.it
La sua lettera è interessante perché mette bene in evidenza
che talvolta la fede può distruggere la morale, alla base della quale c’è
sempre e in ogni caso l’assunzione di responsabilità nei confronti delle
proprie azioni e/o omissioni. Ma per capirlo occorre desacralizzare la morale e
intenderla per quello che è: un sistema di regole che una comunità si dà per
ridurre al massimo la conflittualità. Accade però che, per funzionare, una
morale ha bisogno di essere condivisa da tutti i membri della comunità e, per
ottenere questo scopo, quando le comunità erano primitive e non in grado di
darsi da sé norme da tutti condivise, le religioni hanno fatto credere che
queste norme dipendessero dalla volontà di Dio, che naturalmente premiava chi
le osservava e puniva chi le trasgrediva. (..). Pur tra mille difficoltà
l’Occidente ha gradualmente assimilato la lezione di Platone desacralizzando la
morale e separandola dal volere di Dio. In questo modo ha tolto Dio dalla
contraddizione di non riuscire a conciliare la sua infinita bontà con il male
del mondo da lui creato, e ha restituito agli uomini la responsabilità delle
loro azioni quando conseguono o trasgrediscono le regole morali che essi stessi
si sono dati. Se invece per fede attribuiamo tutto ciò che accade alla volontà
di Dio, non si salveremo mai non solo da un’irresponsabilità generalizzata, ma
anche dalle conseguenze tragiche delle “guerre sante”. Infatti, anche se in
verità esse avvengono per interessi economici, territoriali o di espansione
della propria potenza, queste guerre non possono trovare alcuna mediazione né
diplomatica né politica, perché, in nome di Dio, entrano in gioco identità di
popoli, appartenenze, culture, razze e fedi. Perché quando Dio, scende in terra
è subito apocalisse, come oggi assistiamo nella contrapposizione tra mondo
musulmano e mondo cristiano. (..). Se non vogliamo dar ragione a Nietzsche che
annuncia la “morte di Dio”, accogliamone almeno la benefica intenzione.
umbertogalimberti@repubblica.it
– Donna di Repubblica – 19 settembre 2015
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