La mia collaboratrice domestica è
arrivata a Milano dalla Puglia quando aveva 8 anni: con sette fratelli e
sorelle, un padre operaio che doveva riuscire a mantenerli tutti, una madre che
con antica sapienza dava da mangiare alla famiglia squisite minestre di
lenticchie o di fave per non buttare il poco denaro. Ha cominciato a lavorare a
14 anni come operai, con molta difficoltà perché lei diceva subito di venire
dal Meridione e in quegli anni i superbi milanesi non si fidavano dei
“terroni”, come adesso non si fidano degli stranieri. Quando si è fidanzata, a
18 anni, a lei e al suo ragazzo è stato molto difficile trovare casa in
affitto. Pranziamo insieme ogni girono e lei mi racconta di un mondo che altrimenti
non conoscerei, quello di chi vive nei paesi attorno alla città, che ogni
mattina arriva alla stazione più vicina in bicicletta, prende il treno
affollato verso le 6, poi la metropolitana, poi il tram e va a lavorare. E la
sera riprende il tram, la metropolitana, il treno e infine la bicicletta per
tornare a casa. E’ intelligente, ha capito tutto della vita e del mondo, guarda
il telegiornale meno stupido, detesta Salvini e si arrabbia per i tanti
migranti che muoiono in mare. (..). Pare impossibile, ma per esempio ci sono
cosiddette signore che ancora considerano la per loro indispensabile domestica
una persona senza valore, che si può sfruttare. Isabella ha chiesto 10 euro
l’ora (in nero, ovvio) per stirare tre ore due volte alla settimana. La “padrona”
sprezzante: “Malgrado la crisi ancora non avete imparato ad abbassare la testa,
5 euro o niente”. E Isabella le dice va bene, niente, e se ne va. (..).
Ovviamente l’amore, la famiglia sono al centro dei “racconti del treno”. Di
Fausta che non può avere figli ed è troppo fragile per lavorare. raccontano le
amiche. I soli guadagni li porta a casa il marito muratore, e a un certo punto
lei fa un pasticcio che le fa perdere un migliaio di euro. E’ una tragedia, lui
si arrabbia e da quel momento le tiene il muso per giorni. Lei si dispera al
punto da chiudersi nello sgabuzzino di casa dopo aver inghiottito dei
sonniferi, come nei film: vuole morire, o per lo meno far vedere che vuole
morire. Il marito disperato naturalmente non sa che fare, arriva la madre di
lei incazzatissima. E la trascina al pronto soccorso. Tutto è bene quel che
finisce bene, nel palazzo dove vive è diventata un’eroina per le altre donne, i
mariti si fanno più docili. Carmela racconta con dolore il dramma di sua figlia
Debora. ha 40 anni, è ancora una bella donna, ha tre figlie e un marito
impiegato. Quando era una ragazza, a Milamo, soltanto venti anni fa, suo padre
non le consentiva di uscire con le amiche e i ragazzi se non accompagnata da
qualcuno della famiglia, non le permetteva di andare a ballare e neppure a
lavorare, come nell’800. Il primo uomo che le hanno consentito di conoscere
l’ha sposato. Ha condotto una vita quasi carceraria, come quella di sua madre,
al servizio silenzioso di suo marito. Di colpo qualche mese fa si è svegliata,
ha capito che stava perdendo la sua vita nell’infelicità e con coraggio ha deciso di separarsi: il marito
non capisce, non vuole andarsene, se ne andrà lei che non ha un soldo, che non
ha mai lavorato, che vuole con sé le figlie. Lui la minaccia, la famiglia di
lei la crede impazzita o preda di un amante. lei non ha nessuno, vuole solo il
diritto alla libertà, a essere una persona e non un servizio. La madre la
contrasta, le dice “ma le donne sono nate per sopportare”. Le zie l’avvertono
“guarda che per sette anni non potrai vedere un altro uomo, lo dice la legge”.
Lei non ascolta, sta cercando un lavoro per cominciare a vivere Un mondo
lontano, così vicino.
Natalia Aspesi – Donna di Repubblica - 3 ottobre 2015
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