Il 1986 è un anno cruciale nell'evoluzione
della "guerra fredda" tra Stati Uniti e URSS.
L'elezione di Mikhail Gorbaciov a segretario generale del Partito comunista
sovietico (massima carica del regime) sembra promettere l'inizio di una nuova
era nei rapporti tra le due superpotenze e soprattutto una svolta nella
febbrile corsa agli armamenti, scongiurando l'imminenza di un conflitto
nucleare. Ma è un processo lento.
Nella primavera di quell'anno, infatti, il clima
è ancora teso ed è forte in URSS la paura di un attacco alle centrali nucleari.
Per questo si effettuano numerosi test di sicurezza per verificare il
funzionamento dei reattori in condizioni "limite". Simili operazioni
avvengono nel sito nucleare di Chernobyl, situato nelle adiacenze
della città ucraina di Pripjat', a 16 km dal confine con la
Bielorussia. Utilizzata per produrre energia elettrica ad uso civile e plutonio
per scopi militari, la centrale funziona attraverso 4 reattori.
Gli standard di sicurezza sono
lontani da quelli adottati a quel tempo nel mondo occidentale e la storia della
sua costruzione è costellata di elementi allarmanti sotto il profilo
dell'affidabilità. La notte di sabato 26 aprile tutto ciò emerge con estrema
drammaticità incrociando l'errore umano. Il vice capo ingegnere Anatoly
Dyatlov ha il comando delle operazioni e decide di verificare se la
turbina del reattore 4 è in grado di generare energia per inerzia, anche in
presenza di un'interruzione della corrente elettrica.
Per gli altri tecnici si tratta di un'operazione
rischiosa, per via delle condizioni non ottimali della potenza del reattore.
Dyatlov non sente ragioni, accecato dall'ambizione di prendere il posto del suo
superiore. All'1.23 si dà avvio all'esperimento ed è l'inizio della fine. La
catastrofe si materializza in appena un minuto: la pressione del reattore è
alle stelle e il disperato tentativo di bloccarne la potenza si rivela fatale,
aumentandone di cento volte la potenza distruttiva. A una prima esplosione ne
segue una seconda di maggiore portata, che disperde nell'aria 50
tonnellate di carburante nucleare. Scattano immediatamente i soccorsi ma il
rischio radioattivo è di fatto inarginabile: il primo bilancio ufficiale parla
di 31 vittime che sale a 65 tra tecnici della centrale e soccorritori.
Nelle prime ore le autorità sovietiche sono
impegnate a minimizzare l'incidente agli occhi del mondo, salvo poi fare
dietrofront quando la nube radioattiva raggiunge il resto
dell'Europa, arrivando a lambire l'area del Mediterraneo. Nel frattempo viene
fatta sgombrare l'intera città di Pripjat', decisione poi allargata a tutti i
residenti nel raggio di 30 km dall'impianto. Centri abitati e vegetazione
assumono l'aspetto di luoghi fantasma che conserveranno nei decenni a seguire.
Il rischio contaminazione scatena il panico
nell'opinione pubblica europea, in particolare in Italia dove si vieta il
consumo degli alimenti più a rischio come latte e insalata. In quel periodo
prende forza il movimento antinucleare, che con il referendum del 1987 porta
allo stop definitivo della produzione di energia nucleare in Italia.
Ricordato come il più grave incidente nucleare
della storia, l'unico insieme a quello di Fukushima del 2011 a far registrare
il massimo livello previsto dalla scala INES dell'IAEA, Chernobyl resta una
questione aperta su cui si dividono istituzioni e associazioni
antinucleariste. Esiste infatti una guerra di cifre sul numero reale delle
vittime delle radiazioni, stimabile secondo l'ONU intorno ai 4mila casi tra
tumori e leucemie, in un arco di tempo di ottant'anni. Per Greenpeace il
rischio decessi potrebbe interessare 6 milioni di persone.
http://www.mondi.it/almanacco/voce/432004
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