Renato Cartesio (AFI: /karˈtɛzjo/; in francese René Descarte, [ʁə'ne de'kaʁt]; in latino Renatus
Cartesius; La Haye en Touraine [oggi Descartes], 31 marzo 1596 – Stoccolma, 11 febbraio 1650) è stato un filosofo e matematico francese, fra i principali
fondatori della matematica e della filosofia moderne.
Cartesio estese la concezione razionalistica di una conoscenza ispirata alla
precisione e certezza delle scienze matematiche a ogni aspetto del sapere, dando
vita a ciò che oggi è conosciuto con il nome di razionalismo continentale, una posizione filosofica dominante
in Europa tra il XVII e il XVIII secolo.
Le
origini familiari
Cartesio, secondo il suo biografo Adrien Baillet, nacque il 31 marzo del 1596 a La Haye en Touraine, in una casa
«delle più nobili, delle più antiche e delle più in vista della Turenna»;
in realtà il titolo di Cavaliere fu concesso alla famiglia Descartes soltanto il
20 gennaio 1668.
Il suo biografo Pierre Borel, credeva
invece che fosse nato nella casa che i Descartes possedevano a Châtellerault, nel Poitou: entrambe le case esistono ancora e del
Poitou erano originari gli avi del filosofo, che non erano però nobili.
Il nonno Pierre Descartes era un medico e il figlio Joachim (1563-1640), che esercitò
l'avvocatura a Parigi, nel 1585 acquistò la
carica di consigliere del Parlamento
di Bretagna, dove si trovava quando la moglie Jeanne Brochard (1570-1597) partorì René, terzo
figlio dopo le nascite di Jeanne (1590-1640) e di Pierre (1591-1660).
Gli studi
Solo nella ricorrenza della Pasqua del 1607 entrò nel
collegio di La Flèche- fondato da Enrico IV nel 1603 e assegnato
ai gesuiti - che già godeva
di alta rinomanza e dove il fratello Pierre aveva iniziato gli studi nel 1604. Nello stesso
collegio studiò il teologo e scienziato Marin Mersenne, che Cartesio
conoscerà probabilmente solo nel 1622 o 1623, di cui fu amico per tutta la
vita e che si occupò dei suoi affari in Francia quando Cartesio risiedette in
Olanda. Gli studenti, provenienti da ogni parte della Francia senza
distinzione di classe sociale, erano tenuti al solo pagamento della pensione e
i corsi prevedevano tre anni di studio della grammatica, tre anni di studi umanistici e tre
anni di filosofia. Coloro che avessero voluto
intraprendere la carriera ecclesiastica vi avrebbero continuato a studiare per
altri cinque anni la teologia e le Scritture.
Nei primi sei anni di corso i giovani
attendevano a studi grammaticali (quattro anni) e retorici (due anni). Tutte
informazioni necessarie, secondo Cartesio, per conversare con il passato, che è
come un viaggiare nella dimensione del tempo. I libri che Cartesio cercò di
fuggire come la peste furono quelli di filosofia, e particolarmente i grandi e
oscuri libri della Scolastica vecchia e nuova,
prima e seconda. Della poesia, poi, conservò sempre intatta l'ammirazione, pur
considerando poesia ed eloquenza doni dell'ingegno, piuttosto che frutti dello
studio. L'amore per la poesia accompagnò il filosofo fino alla morte. Ai sei
anni di studi grammaticali e storici, seguivano a La Flèche i tre anni degli
studi propriamente filosofici o filosofico-scientifici: di logica, fisica,
matematica, morale e metafisica. L'insegnamento aveva come base Aristotele.
Scarso era l'insegnamento della matematica, impartito per meno di un'ora al
giorno ai soli studenti del secondo anno di filosofia. S'insegnava
esclusivamente la filosofia aristotelica in un corso triennale ripartito
nell'apprendimento della logica, basato sui manuali di Francisco
Toledo e di Pedro da Fonseca della fisica e della metafisica, quest'ultima insieme con nozioni
di filosofia morale.
L'incontro con Isaac
Beeckman
Uscito da La Flèche, per qualche anno
Cartesio sfugge alla presa dello storico. Con sicurezza si sa solamente che nel
1616 è a Poitiers a studiare diritto; che il 21 maggio fa da padrino al figlio
di un sarto presso cui abita; che il 9 e il 10 novembre, superate le prove è
baccelliere e licenziato in diritto canonico e civile. Figura come testimone in
due atti di battesimo, del 22 ottobre e del 13 dicembre 1617, a Sucé,
nella diocesi di Nantes.
Raggiunta la maggiore età, con una
salute recuperata e il desiderio di conoscere cose nuove, ai primi del 1618 Cartesio si arruolò
volontario in uno dei due reggimenti francesi di stanza a Breda, nei Paesi Bassi, sotto il comando del principe d'Orange. È un periodo
di tregua della guerra che oppone le Province
Unite alla Spagna: Cartesio aveva un valletto al suo
servizio, ma l'ignoranza e la volgarità dei compagni, e l'ozio forzato a cui
era spesso costretto non gli fecero amare l'ambiente militare. Tuttavia quel
soggiorno si rivelerà importante sotto un altro aspetto: il 10 novembre conobbe
casualmente il medico Isaac Beeckman, venuto da Middelburg a
Breda per trovare lo zio e una ragazza da sposare ed entrambi si trovarono a
cercare di risolvere un problema matematico. Il trentenne Beeckmam esercitò
naturalmente una forte attrazione intellettuale su René e ne nacque un'amicizia
che, pur contrastata negli anni, orienterà gli interessi di Cartesio verso le
scienze matematiche…..
I due amici rimasero in contatto
epistolare: il 26 marzo 1619 Cartesio informò Beeckman di aver inventato dei
compassi grazie ai quali aveva potuto formulare nuove dimostrazioni sui
problemi relativi alla divisione degli angoli in parti uguali e alle equazioni cubiche, ripromettendosi di sviluppare queste
scoperte in un trattato ove egli avrebbe esposto «una scienza del tutto nuova,
con la quale si possano risolvere in generale tutte le questioni proponibili in
qualsiasi specie di quantità, sia continua sia discreta». È la prima testimonianza
dell'intuizione della geometria analitica: «nell'oscuro caos di
questa scienza ho intravisto uno spiraglio di luce».
A questo proposito, sebbene egli non ne
sia stato l'inventore, Cartesio è conosciuto anche per la diffusione del
cosiddetto diagramma cartesiano il cui uso
risale a epoche antiche.
La Mirabilis
Scientia
L'incontro con Beeckman fu decisivo per
Cartesio: comunque lo si voglia valutare, costituì una scossa e un incitamento.
Il 23 aprile 1619 diceva questo:
«Tu solo mi hai svegliato dall'inerzia,
hai richiamato una cultura quasi dimenticata, hai ricondotto a cosa migliori
un'indole sviata lungi da occupazioni serie. Se mai farò qualcosa di non
disprezzabile, tu potrai a buon diritto reclamarlo; io stesso non tralascerò di
inviartelo, perché tu ne faccia uso e lo corregga.» Detto questo, più di
dieci anni dopo Cartesio sarà durissimo, infatti Mersenne gli aveva
riferito che Beeckman si vantava di avergli insegnato, dieci anni prima;
Cartesio si sdegna. E gli scrive: «Rifletti alle cose che uno può insegnare ad
un altro! Se qualcuno pensa qualcosa senza esservi spinto né dall'autorità né
dalle ragioni altrui, anche se l'ha sentito da molti, non per tanto si deve
credere che l'abbia imparato da costoro. Può darsi, al contrario, che sappia
solo lui perché indotto da ragioni vere, laddove gli altri, pur avendo opinato
nello stesso modo, non per questo sappiano, poiché partivano da falsi princìpi.
E allora, se ci ripensi bene, ti accorgerai agevolmente che da quella tua
Matematico-fisica di cui vai sognando non ho imparato più che dalla Batracomiomachia». Era la conclusione
ingiusta di una amicizia breve ma profonda. Era anche la cruda informazione che
non si dà sapere se non unitario, e se non fondato su una presa di coscienza
radicale e completa dei fondamenti. Beeckman e Cartesio si riconcilieranno; ma
era ormai ben lontano il 1619.
Il ritorno in Francia
Lasciato l'esercito, nel 1622 tornava presso
la famiglia a Rennes e si trasferiva nei primi mesi del 1623 a Parigi, ospite di un amico del padre, Nicolas
Le Vasseur, che gli presentò il matematico Didier
Dounot: in questo lasso di tempo potrebbe aver conosciuto anche Claude Mydorge. In autunno partiva per un lungo
viaggio in Italia: la morte del signor Sain, marito della
sua madrina e commissario generale al vettovagliamento per le truppe francesi
stanziate in Italia, aveva lasciato libera una carica lucrosa che Cartesio
avrebbe cercato - ma invano - di farsi assegnare.
Secondo i biografi Cartesio, che aveva
letto in collegio un testo allora famoso, Le pèlerin de Lorette del
gesuita Louis
Richeome, sarebbe andato a Loreto per visitare la leggendaria Casa
di Nazareth lì trasportata dagli angeli, poi a Roma, a Firenze, dove non incontrò Galileo, e a Venezia. Rientrò in Francia attraverso il passo
del Moncenisio ed ebbe occasione di assistere
alla caduta di valanghe, un fenomeno che tratterà nel libro sulle Météores.
Giunse a Parigi nel maggio del 1625. Nel complesso non ricavò una buona
impressione della penisola e dei suoi abitanti: «la calura del giorno è
insopportabile, il fresco della sera malsano e l'oscurità della notte copre
furti e omicidi»…
Nel novembre del 1627 fu invitato
nella casa del nunzio pontificio Gianfrancesco
Guidi di Bagno a una riunione di scienziati e filosofi. Lì, presenti anche il
cardinale Bérulle e il Mersenne, si trovò a
confutare le teorie filosofiche di un certo Chandoux attraverso l'esposizione
del suo «metodo naturale» fondato sulle Regulae ad directionem ingenii che
Cartesio stava elaborando.
Per lavorarci con maggiore tranquillità,
partì per la Bretagna e poi si trasferì in una sua
proprietà nel Poitou: le Regulae sono
costituite da 21 proposizioni, 18 delle quali, le prime, commentate; il testo è
stato lasciato incompiuto; Cartesio darà lo sviluppo organico del tema del
metodo della conoscenza nel successivo Discours de la méthode.
L'intenzione è quella di orientare gli
studi in modo che «la mente giunga a giudizi solidi e veri su tutto ciò che le
si presenta». Il metodo è «la via che la mente umana deve seguire per
raggiungere la verità»: esso consiste nell'ordinare e disporre gli oggetti
sui quali s'indirizza la mente per giungere alla verità. Le proposizioni
involute e oscure devono essere ridotte a proposizioni più semplici e poi,
partendo dall'intuizione di queste ultime, progredire alla conoscenza di quelle
più complesse. Le proposizioni semplici, comprese intuitivamente e senza
ricorrere a dimostrazioni per la loro evidenza, sono equivalenti ai postulati e
agli assiomi matematici e costituiscono i principi della conoscenza.
In Olanda
Fu di nuovo a Parigi nell'aprile
del 1628: in questo periodo
sembra che abbia scritto un trattatello sulla scherma, andato perduto: Traité
d'escrime. In ottobre andò a Dordrecht, nei Paesi Bassi, a trovare l'amico
Beeckman: in questa occasione deve aver maturato la decisione di trasferirsi
nei Paesi Bassi. Dopo un ritorno a Parigi nell'inverno del 1628, nel marzo
del 1629 ripartì per
l'Olanda: si stabilì a Franeker, ove il 26
aprile si iscrisse all'Università per frequentare i corsi di filosofia.
Probabilmente scelse quell'università perché vi insegnava il matematico Adrien Metius, fratello di
quel Jacques Metius che a giudizio
di Cartesio aveva inventato il cannocchiale.
Continuò a lavorare sui problemi
dell'ottica e in agosto fu messo a conoscenza dall'amico professore di
filosofia Henricus
Reneri dell'osservazione del fenomeno ottico-astronomico
dei pareli, effettuata il 20
marzo a Frascati dall'astronomo
gesuita Christoph Scheiner. Quel fenomeno era già noto e Pierre Gassendi ne diede il 14
luglio una descrizione che verrà ripresa da Cartesio nelle Météores:
sono circoli bianchi che «invece di avere al loro centro un astro, attraversano
ordinariamente il centro del Sole o della Luna e risultano paralleli o quasi
all'orizzonte».
Dal 1630 cominciò a lavorare al Le Monde ou traité de la lumière che avrebbe
dovuto rappresentare l'esposizione della propria filosofia naturale, ma la
notizia della condanna, nel 1633, del Galilei e della messa
all'Indice del Dialogo sopra i due
massimi sistemi lo dissuasero dal completare e pubblicare l'opera che
in più parti sposava le tesi di Copernico condannate dalla Chiesa. Dopo un'edizione parziale postuma in traduzione latina nel 1662 a Leida, il trattato fu
pubblicato nella versione originale francese a Parigi nel 1664 in due parti
separate, con il titolo, rispettivamente, di Le Monde ou le traité de
la lumière et des autres principaux objects des sens e di L'Homme;
finalmente, nel 1667, l'opera fu
pubblicata integralmente a Parigi insieme con il frammento La formation
du foetus.
Nel 1635 diventò padre
con la nascita della figlia Francine (1635-1640) battezzata
il 7 agosto dello stesso anno, avuta da una domestica di nome Helena Jans Van
der Strom che aveva avuto come amante per alcuni anni senza mai sposarla
neppure dopo questa nascita. Cartesio però riconobbe Francine, che morì a soli
5 anni, come sua figlia.
Nel 1637 pubblicò in un
volume il Discorso sul metodo come prefazione
ai saggi su Diottrica, Geometria e Meteore. Nel 1641 diede alle
stampe la prima edizione, in latino, delle Meditazioni
metafisiche corredate dalle prime sei Obiezioni e
risposte. L'anno successivo (1642) con la seconda edizione delle Meditazioni pubblicò
le settime Obiezioni e risposte; l'opera fu tradotta in francese
nel 1647 dal Duca di
Luynes.
Nel 1643 la filosofia
cartesiana venne condannata dall'Università di Utrecht e accusata
di pelagianesimo e persino di ateismo da parte di ambienti calvinisti[68], contemporaneamente Cartesio cominciò
una lunga corrispondenza con la principessa Elisabetta
di Boemia. Nel 1644 compose i Principia philosophiae e compì un
viaggio in Francia. Nel 1647 la corona di Francia gli riconobbe una pensione. L'anno
successivo da una lunga conversazione con Frans
Burman nacque il testo Entretien avec Burman (Conversazione
con Burman), pubblicato per la prima volta nel 1896.
Precettore di filosofia
in Svezia e morte
Nel 1649 si trasferì
a Stoccolma accettando l'invito della regina Cristina di Svezia, sua discepola,
desiderosa di approfondire i contenuti della sua filosofia.[68] Quell'anno dedicò alla principessa
Elisabetta il trattato Le passioni
dell'anima. L'inverno svedese e gli orari ai quali Cristina lo costringeva a uscire
di casa per impartirle le lezioni - alle cinque del mattino, quando il freddo
era più pungente - ne minarono il fisico. Secondo il racconto tradizionale e
l'ipotesi più accreditata, Cartesio morì l'11 febbraio 1650 per una
sopraggiunta polmonite. La condanna della Chiesa
cattolica nei confronti del pensiero cartesiano non tardò a venire, con la
messa all'Indice nel 1663 delle sue opere
(poste nell'Index con la clausola attenuante suspendendos
esse, donec corrigantur).
Le ossa di Cartesio
Dopo la morte il corpo di Cartesio venne
tumulato in un piccolo cimitero cattolico a nord di Stoccolma dove rimase fino
al 1666 quando i resti
vennero riesumati per essere portati a Parigi e inumati nella chiesa di Sainte
Geneviève-du-Mont dove rimase sino al 26 febbraio 1819 quando la salma
fu nuovamente trasferita e inumata tra altre due lapidi tombali, quelle
di Jean Mabillon e di Bernard de Montfaucon, nella chiesa di Saint-Germain-des-Prés: «alla presenza dei
rappresentanti dell'Accademia delle scienze, la salma fu ancora riesumata.
Aprendo la bara, i presenti si resero conto che qualcosa non andava, in quanto
allo scheletro del filosofo mancava misteriosamente il cranio.»
Si scoprì che gli svedesi ne avevano
asportato la testa, che ricomparve a Stoccolma a un'asta, ove il cranio fu
acquistato e donato alla Francia. Sul teschio, privo della mandibola e della
parte inferiore, compaiono le firme dei suoi proprietari dalla fine del
Seicento al momento della vendita. Secondo l'uso del tempo gli intellettuali
tenevano sulla scrivania un teschio, meglio se di un illustre personaggio, a
memento della morte comune e inevitabile. Il teschio, attribuito a Cartesio sia
per l'età sia per le ricostruzioni fatte in base ai ritratti del filosofo,
continuò a rimanere separato dal resto del corpo ed esposto al Musée de l'Homme….
Nel 1801 in suo onore la città natale fu ribattezzata La Haye-Descartes e
nel 1966, dopo la sua fusione
con il comune di Balesmes, Descartes. Inoltre in paese esiste ancora la casa natale, che nel 1974 è stata
trasformata in museo e successivamente nel 2005 è stata ampliata con un suggestivo percorso, pensato per far rivivere
ai visitatori l'atmosfera dell'epoca oltre che conoscere la vita e il pensiero
dello scienziato.
Un'altra ipotesi sulla
morte di Cartesio
Il filosofo tedesco Theodor Ebert (1939-), dell'Università di Erlangen, nell'opera La
misteriosa morte di René Descartes è giunto alla conclusione che
Cartesio morì non per una polmonite, ma per un avvelenamento da arsenico. Ebert ha scoperto
una nota del medico di Cartesio dove si descrivono le condizioni del filosofo,
consistenti in «perdurante singhiozzo, espettorazione di colore nero,
respirazione irregolare» sintomi riportabili ad avvelenamento da arsenico.
Nella stessa opera si racconta di come Cartesio, forse sospettando un
avvelenamento, poco prima di morire chiedesse un infuso di vino e tabacco,
bevanda che serviva a vomitare.
Nel 1996 la tesi dell'avvelenamento era stata avanzata anche da autori come
Eike Pies che l'attribuiva all'iniziativa di un monaco cappellano presso
l'ambasciata francese a Stoccolma incaricato di operare come "missionario
del nord" per convertire la regina svedese al cattolicesimo.
Nel 1980 Pies ebbe modo di leggere nell'archivio dell'università di Leiden,
Paesi Bassi, una lettera del medico della regina Cristina, che descriveva a un
amico dottore i sintomi del moribondo Cartesio, consistenti in «emorragia allo
stomaco, vomito nero, tutte cose che non hanno niente a che fare con la
polmonite»….
La ipotesi di assassinio per opera del
fanatico padre Viogué si baserebbe sul fatto che questi vedeva
nell'insegnamento cartesiano un ideale razionalista che avrebbe portato la
regina Cristina a un cattolicesimo diverso da quello professato dal padre
agostiniano. Tale affermazione, però, sembra in parte contrastare con
quanto affermato dalla regina di Svezia, la quale, in una testimonianza
inserita nell'introduzione all'edizione postuma parigina delle Méditations
métaphysiques, elogia il filosofo scrivendo che « [M. Des-Cartes] a
beaucoup contribué a nostre glorieuse conversion; et que la providence de Dieu
s'est servie de luy [...] pour nous en donner les premières lumières; ensorte
que sa grâce et sa misericorde acheverent apres à nous faire embrasser les
veritez de la Religion Catholique Apostolique et Romaine ».
La maggior parte degli studiosi si
mostra assai scettica riguardo all'ipotesi di avvelenamento, considerando ben
più attendibile quella tradizionale fornita dal biografo Baillet tanto da
ritenere che «non sono assolutamente da seguirsi le voci secondo le quali il
filosofo sarebbe morto per avvelenamento, vittima di una congiura di corte: non
sembrano verosimili e nessuno ha mai avanzato prove plausibili».
Per di più gli amici che nelle ultime
ore assistettero Cartesio osservarono un sintomo non riconducibile all'avvelenamento da arsenico: la febbre alta. La
stessa alterazione febbrile Cartesio aveva avuto modo di riscontrare
nell'ambasciatore Nopeleen e nell'amico Chanut appena guarito da una febbre
alta. A rendere poco convincente l'avvelenamento sarebbe stato il fatto che lo
stesso presunto avvelenatore, Vioguè, confessò e confortò Cartesio sul letto di
morte amministrandogli l'estrema unzione.
«Volendo seriamente ricercare la
verità delle cose, non si deve scegliere una scienza particolare, infatti
esse sono tutte connesse tra loro e dipendenti l'una dall'altra. Si deve
piuttosto pensare soltanto ad aumentare il lume naturale della ragione, non
per risolvere questa o quella difficoltà di scuola, ma perché in ogni
circostanza della vita l'intelletto indichi alla volontà ciò che si debba
scegliere; e ben presto ci si meraviglierà di aver fatto progressi di gran
lunga maggiori di coloro che si interessano alle cose particolari e di aver
ottenuto non soltanto le stesse cose da altri desiderate, ma anche più
profonde di quanto essi stessi possano attendersi»
|
(Cartesio dal
"Discorso sul metodo")
|
Alla ricerca della
«scienza universale»
Alla analisi e classificazione delle
scienze, all'esame del rapporto volontà e intelletto, era dedicato lo Studium
bonae mentis, ossia "la ricerca del bene mentale", composto
probabilmente intorno al 1623. Oggi perduto, Adrien Baillet lo adoperò, traendone precise
citazioni, che indicano anche i numeri dei paragrafi. Lì appunto, nel paragrafo
quarto, Cartesio offriva una classificazione delle scienze di notevole
interesse: «Divideva le scienze in tre classi: le prime, che chiamava scienze
cardinali, sono le più generali che si deducono dai princìpi più semplici e più
noti alla comune degli uomini. Le seconde che chiamava sperimentali, sono
quelle i cui princìpi non sono chiari e certi a tutti, ma solo a quelli che li
hanno appresi con la loro esperienza e le loro osservazioni, benché taluni li
conoscano in via dimostrativa. Le terze, che chiamava liberali, sono quelle
che, oltre la conoscenza della verità, richiedono una prontezza di spirito, o
almeno un'abitudine acquisita con l'esercizio, come la politica, la medicina
pratica, la musica, la retorica, la poetica e molte altre che si possono
comprendere sotto il nome di arti liberali, ma che non hanno in sé altra verità
indubitabile che quella che traggono dai princìpi di altre scienze».
Nel paragrafo cinque sembra che
determinasse i caratteri della vera scienza e degli scienziati autentici.
Finalmente, alle pagine sette e otto, discuteva della memoria, e in modo degno
di nota, con una precisa derivazione da Gerolamo Cardano: «Sembrava dubitare che fosse distinta
dall'intelletto e dall'immaginazione. Credeva che di tutte le 'specie' che
servono alla memoria alcune possano essere in diverse altre parti del corpo,
come l'abitudine di un suonatore di liuto non è solamente nella sua testa, ma
anche in parte nei muscoli delle sue mani. Ma oltre a questa memoria che
dipende dal corpo, ne riconosceva anche una del tutto intellettuale, che
dipende solo dall'anima».
Cartesio comprende che ormai è venuto il
momento di mettere in discussione ogni insegnamento ricevuto, si sente ormai
sciolto da ogni obbligo nei confronti dei maestri e per lui, almeno una volta
nella vita, quelli che sul serio si preoccupano della bona mentis, devono
mettere in discussione l'intero patrimonio del sapere, esaminando criticamente
il campo a cui possa avere accesso l'umana ragione. Per raggiungere tale scopo
l'unico mezzo è rivolgere l'attenzione, non già alla molteplicità degli oggetti
delle singole scienze, ma all'umano sapere, che è unico, che procede secondo
leggi uniche, che ha un fine unico. «Tutte le scienze altro non sono che
l'umano sapere, che permane sempre uno e medesimo, per differenti che siano gli
oggetti a cui si applica, né deriva da essi maggior distinzione di quanta ne
derivi il lume del sole dalla varietà delle cose che illumina».
Il cammino dallo Studium bonae
mentis al Discorso sul metodo si presenta
quasi a tappe, a momenti. Comunque è chiaro il definirsi della concezione
dello Studium bonae mentis come analisi dei processi della
conoscenza, uniformi nella varietà delle discipline perché radicati in una
costituzione nativa della mente. Senza dubbio i punti intorno a cui si
polarizza l'attenzione di Cartesio sono: la certezza evidente come criterio di
verità; l'intuito come luce di ragione, come strumento per giungere alla
verità, integrato dalla deduzione, la quale, per altro, si configura come
«un moto continuo e mai interrotto del pensiero intuente le singole cose»,
ossia come estensione dell'intuito; le nature semplici; il loro ordine, come
catene di verità che si articolano in una totalità, l'enumerazione e la memoria
intellettuale in quanto determinano il concreto estendersi dell'intuito alla
totalità delle verità. Ciò che, secondo Cartesio, è più mancato alla ricerca
scientifica è stato il metodo, ossia una ricerca sistematica, organica,
ordinata, che non si limitasse a singoli ritrovati casuali. Per Cartesio la
vera scienza è unità articolata, ordinata, comprensiva di tutte le scienze.
Scienza è cognizione evidente di verità perfettamente note e delle quali non si
può dubitare. Si tratta quindi di affrontare prima il problema dei mezzi di
accesso alle verità, ossia degli strumenti; poi di mettere in luce la struttura
oggettiva delle verità, il cui sistema costituisce il contenuto della scienza.
Da queste basi parte la stesura di una delle principali opere di Cartesio, vale
a dire il Discorso sul metodo.
Cartesio e il dubbio
Che cosa possiamo sperare di conoscere
con certezza? Proprio quando sembra impossibile individuare qualcosa che possa
essere conosciuto con evidente certezza,
Cartesio si rende conto che qualunque cosa possa fare quel genio maligno di cui
ha ipotizzato l'esistenza nel corso della messa in discussione di ogni
certezza, questi non potrà mai far sì che io, che dubito di essere ingannato da
lui, non esista: la sua azione dell'ingannare si rivolge ad un esistente che
subisce l'inganno e che dubita di essere ingannato e, se dubita, pensa. Questo
è il principio (meglio conosciuto nella formula del cogito ergo sum, "penso, quindi
sono", che compare nel Discorso sul metodo) su cui ricostruire l'edificio della
conoscenza.
Dal momento che dobbiamo rifiutare
l'insegnamento dei sensi che ci rappresentano come dotati di un corpo,
Descartes conclude di essere una sostanza pensante.
La contrapposizone fra res cogitans
e res extensa avrà notevoli risvolti antropologici.
Il pensiero costituisce la sua essenza nella misura in cui esso è ciò di cui non può più dubitare. La
costruzione del sapere avviene attraverso il metodo della deduzione mentre i sensi
sono privati di ogni dignità conoscitiva.
Cartesio e il metodo
«Si giunge così alla
filosofia moderna in senso stretto, che inizia con Cartesius. Qui possiamo dire
d'essere a casa e, come il marinaio dopo un lungo errare, possiamo infine
gridare "Terra!". Cartesius segna un nuovo inizio in tutti i campi.
Il pensare, il filosofare, il pensiero e la cultura moderna della ragione
cominciano con lui.»
(Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia
Ritenuto il primo pensatore moderno che
ha fornito un quadro filosofico di riferimento per la scienza moderna all'inizio del suo sviluppo,
Cartesio ha cercato di individuare i principi fondamentali che possono essere
conosciuti con assoluta certezza. Per farlo si è servito di un metodo
chiamato scetticismo
metodologico: rifiutare come falsa ogni idea che può essere
revocata in dubbio.
La conoscenza sensibile è la prima a
essere messa in mora: è bene diffidare di chi ci ha già ingannato, potrà farlo
ancora. Addirittura nel sonno capita di rappresentarsi cose che non esistono
come se fossero vere. Perciò non bisogna credere nei sensi.
La conoscenza matematica solo apparentemente può sfuggire
al metodo del dubbio metodico messo in atto da Cartesio. Infatti, benché sembri
che non ci possa essere nulla di più sicuro e di più certo, non si può neppure
escludere che un "genio maligno", supremamente malvagio e potente, si
diverta a ingannarci ogni volta che effettuiamo un calcolo matematico.
Cartesio, per la sua personale
esperienza della verità, ritiene che i pensieri di cui possiamo essere certi
sono evidenze primarie alla ragione. Evidente è l'idea chiara e distinta, che
si manifesta all'intuito nella sua elementare semplicità e certezza, senza
bisogno di dimostrazione. Ne sono esempi i teoremi di geometria euclidea, che
sono dedotti in base alla loro stessa evidenza, ma nello stesso tempo
verificabili singolarmente in modo analitico, mediante vari passaggi.
Il ragionamento non serve a dimostrare
le idee evidenti, ma semplicemente a impararle e memorizzarle; i collegamenti
hanno la funzione di aiutare la nostra memoria. Kant rileverà che questo non
solo è un metodo opportuno, ma che è l'unico possibile, che le coscienze si
formano intorno a un "io penso" che può apprendere soltanto
conoscenze che derivino da un unico principio.
Cartesio afferma anche che ognuno ha il
suo metodo e che il suo è uno dei metodi possibili. La cosa più importante è
darsi un metodo cui sottoporre tutte le verità e da seguire come regola per
tutta la vita; il metodo cartesiano finisce con l'essere un imperativo
categorico il cui contenuto metodico varia a seconda delle circostanze, ma
anche della persona (cosa che l'imperativo categorico non ammette). Il metodo
cartesiano quindi non è altro che un criterio di orientamento unico e semplice
che all'interno di ogni campo teoretico e pratico aiuti l'uomo, e che abbia
come ultimo fine il vantaggio dell'uomo nel mondo.
Il composto anima-corpo
Qual è il rapporto che l'io in quanto
pensiero e il corpo in quanto estensione intrattengono tra di loro?
Cartesio anzitutto esclude che il
pensiero sia nel corpo «come un nocchiero nella barca»; questa era l'immagine
platonica per illustrare il rapporto anima-corpo, che lasciava intatte e
separate le due sostanze.
A tale possibilità Cartesio obietta che
le sensazioni che abbiamo, fame, sete, dolore, ecc., ci segnalano un rapporto
diretto col corpo, laddove non si realizzasse un'unità, l'intelletto non
proverebbe quei pensieri di sensazione, ma essi gli riuscirebbero in qualche
modo estranei.
C'è un ulteriore elemento che ci dà la
misura dell'unione intrinseca dell'intelletto col corpo, e cioè che i corpi
esterni a noi intrattengono con noi rapporti che non sono percepiti come
inerenti esclusivamente alla nostra corporeità, ma come benefici o dannosi a
tutti noi stessi.
Anima e corpo sono dunque «mescolati»,
come attestano le sensazioni sia interne sia esterne; ma non al punto che non
sia possibile distinguere alcune operazioni «che sono di pertinenza della sola
anima» e altre «che appartengono al solo corpo».
All'anima compete la conoscenza della
verità, al corpo le sensazioni «che ci sono date dalla natura propriamente solo
per indicare all'anima quali cose siano di beneficio, quali di danno, a quel
composto di cui essa è una parte, e ciò finché non sono ben chiare e distinte».
Il corpo dà dunque all'anima le
indicazioni necessarie perché essa operi per la sopravvivenza del composto, ma
tali indicazioni sono oscure e confuse, e la luce intellettuale deve, per
conoscere la verità su di esse, provvedere a chiarirle.
Questa spiegazione puramente funzionale
delle sensazioni urta però con due obiezioni che Cartesio si pone
immediatamente.
Le sensazioni nocive
Il corpo però a volte ha sensazioni
nocive per il composto, in ciò venendo meno alla sua funzione, ad esempio
«quando qualcuno, ingannato dal sapore gradevole di un cibo, ingerisce il
veleno che vi è nascosto».
Questa obiezione è facilmente
superabile, in quanto al più in questo caso si può accusare la sensazione di
ignorare che in quel cibo c'è del veleno, ma ben sappiamo che l'uomo è «una
cosa limitata», e un caso del genere si spiega considerando che la sensazione
ha una capacità informativa limitata.
Più insidiosa è l'altra obiezione, che
osserva che ci sono sensazioni che direttamente operano a danno del composto;
ad esempio «quando coloro che sono ammalati desiderano una bevanda o del cibo,
che poco dopo sarà loro nocivo» come l'idropico che prova una sensazione di
sete, soddisfacendo la quale sicuramente si danneggerà.
Per rispondere all'obiezione Cartesio
tenta dapprima la strada della spiegazione meccanicistica del corpo, cui
addossare la responsabilità dell'errore. Istituisce il
paragone tra corpo e orologio e osserva che se si considera il corpo come una
macchina di pure parti materiali, si può pensare alla malattia come a una
rottura della macchina; ma anche con questo modello non si è risposto
all'obiezione, ammette Cartesio, perché le leggi di natura regolano anche un
orologio che funziona male, mentre nel caso dell'idropico vengono meno. Se la
malattia è da paragonarsi a un guasto dell'orologio che ne produce il
malfunzionamento, resta da spiegare come mai vi si aggiunga un'attività
direttamente contraria alla sopravvivenza del composto, e cioè il desiderio di
bere.
Potremmo aggiungere, è come se
l'orologio, oltre a funzionare male, si mettesse a danneggiare i suoi
ingranaggi o attivasse un pulsante di autodistruzione. In tale caso di
autodanneggiamento la sensazione di sete dell'idropico è «un vero errore di
natura», in quanto opera in contrasto con la sopravvivenza del composto, al cui
fine le sensazioni sono istituite.
L'uomo macchina e
gli animali
Il cogito come capacità
di autocoscienza appartiene solo agli uomini dotati
di un corpo che funziona come una macchina: « [...] incomparabilmente
meglio ordinata e ha in sé movimenti più meravigliosi di qualsiasi altra tra
quelle che gli uomini possono inventare [...] » ; gli animali invece
privi di coscienza sono semplici macchine. Solo l'uomo ragiona e parla mentre
gli animali anche quando parlano in modo simile al nostro interloquire, come ad
esempio i pappagalli, non fanno che ripetere dei suoni che sentono, non
elaborano razionalmente dei discorsi. L'incapacità di parlare degli animali non
dipende dal fatto che essi non abbiano gli organi appositi per farlo, come ad
esempio le corde vocali, ma dalla loro incapacità di ragionare. Tanto è vero
che anche uomini privi degli strumenti per parlare sono superiori agli animali
parlanti perché con la loro ragione inventano segni che permettono loro di
comunicare coscientemente, pur essendo muti e sordi.
Gli animali quindi sono privi di ragione
e di coscienza e non provano dolore; anche quando sembrano manifestare
sofferenza, in realtà reagiscono meccanicamente a una stimolazione materiale
come quando toccando una molla dell'orologio le sue lancette si muovono.
Teoria questa confutata e criticata da
altri successivi filosofi (come Jean Meslier, Voltaire e Auguste Comte ammiratore di Cartesio per il resto),
che la reputarono giustificatrice di abusi e crudeltà verso gli animali.
Cartesio e le idee
Se io sono sostanza pensante, il mio pensiero
deve essere caratterizzato da un contenuto, ovvero deve configurarsi come idea
(«Prendo il nome di idea per tutto ciò che è concepito immediatamente dallo
spirito»
Cartesio distingue tre tipologie di
idee:
1. Idee avventizie:
derivano, tramite la sensibilità, da oggetti esterni e sono indipendenti
dall'uomo;
2. Idee fattizie: quelle
da noi inventate o costruite (l'idea dell'ippogrifo o quella della chimera);
3. Idee innate: cioè nate
con noi, sono come un patrimonio costitutivo della mente (l'idea matematica,
l'idea di Dio).
Cartesio e Dio
(LA)
«Ex nihilo nihil fit.»
|
(IT)
«Nulla viene dal nulla.»
|
(Principia
philosophiæ, Parte I , art. 49)
|
Con la sola forza del pensiero deduttivo
Descartes propone una "prova ontologica" dell'esistenza di un Dio benevolo che ha
dato all'uomo una mente e un corpo e che non può desiderare di ingannarlo. Le
tre prove ontologiche, liberamente ispirate dalla Scolastica, di cui il filosofo
si serve per postulare l'esistenza di Dio sono:
Siccome l'uomo ha in sé l'idea di Dio, che equivale
all'idea della perfezione, ne deriva, seguendo il principio per cui la causa
dev'essere eguale o maggiore all'effetto prodotto, che l'idea di Dio non può
essere un prodotto della mente dell'uomo (il quale esercitando il dubbio
dimostra la sua imperfezione), né dall'esterno (di cui potendo dubitarne si
dimostra l'imperfezione) ma deve provenire necessariamente da un'entità
perfetta, estranea all'idea di perfetto che l'uomo ha di lui: cioè Dio.
Siccome l'uomo è consapevole della sua imperfezione,
non può essere stato lui l'artefice di quelle idee di perfezione che egli ha
nella sua mente (onniscienza, onnipotenza, prescienza, ecc.) altrimenti alla creazione si
sarebbe dato codeste prerogative. Motivo per cui deve esistere un'entità che
gode di quelle qualità e che abbia dall'esterno creato l'uomo: cioè Dio.
Riprendendo la prova elaborata da sant'Anselmo d'Aosta, Cartesio afferma che
l'esistenza è già implicita nel concetto stesso di perfezione: esiste un'entità
superiore in quanto espressione dell'idea che l'uomo ha di perfetto (la
cosiddetta prova ontologica, come Kant definirà per sostenere
l'impossibilità di far coincidere il piano logico con il
piano ontologico): cioè Dio.
In questo modo, si può recuperare il
rapporto con il mondo sensibile senza timore di essere ingannato da un
eventuale genio maligno. Riprendendo i tre anni di studi filosofici, Cartesio
recupera l'idea della scolastica medioevale di un Dio-Bene che non può
ingannare né me né i miei sensi, e non permetterebbe nemmeno al genio maligno
di farlo - altrimenti questa complicità contraddirebbe la sua bontà e veracità
- per cui è reale il mondo che abbiamo davanti. L'errore cognitivo viene
pertanto attribuito non alla dimensione intellettuale dell'uomo, ma alla volontà, che asseconda nel processo conoscitivo
un principio non ancora chiarito.
Leibniz ebbe modo di
interessarsi di Cartesio quando dopo la morte del filosofo cercò di esaminare
le carte riservate, facenti parte del patrimonio degli scritti cartesiani. Le
carte spedite da Stoccolma erano giunte a Rouen, ma il
battello che da lì le avrebbe dovute trasportare lungo la Senna a Parigi
affondò nei pressi del Louvre[100]. La cassa contenente gli scritti fu
recuperata dal destinatario Claude Clerselier (1614-1684) che,
dopo la morte di Marin Mersenne, dal 1648 era stato a Parigi il
contatto principale di Descartes divenendone amico, seguace ed editore di
numerose opere e che, sempre a difesa del pensiero del suo maestro, aveva
tenuto una vasta corrispondenza con gli intellettuali europei.
Nel giugno del 1676 Leibniz, recatosi
presso Clerselier a Parigi, poté vedere i manoscritti cartesiani riuscendo,
dopo molte insistenze, a copiare sinteticamente solo una parte del testo
cifrato di un taccuino, intitolato De solidorum elementis, che lo
aveva incuriosito
Gli appunti di Leibniz, all'incirca una
pagina e mezza, dopo la sua morte si mescolarono alle altre carte delle sue
opere conservate a Hannover che furono catalogate e ordinate quasi
due secoli dopo, nel 1860, da uno studioso di Leibniz, Louis-Alexandre Foucher
de Careil.
L'Accademia
delle scienze francese nel 1890 pubblicò gli appunti di
Leibniz, con un commento di Ernest de Jonqières, che non riuscì a chiarirne il
testo. Nel 1912 Charles Adam e Paul Tannery, che operavano presso
la Bibliothèque
nationale de France, vi scoprirono una copia dell'inventario degli
scritti cartesiani stilato a Stoccolma da Pierre Chanut il 14 e 15 febbraio
1650. I due studiosi poterono così raccogliere una miriade di informazioni
sugli appunti cartesiani, che furono ancora una volta studiati nel 1966 da un
gruppo di ricercatori che tuttavia non riuscirono a chiarirne il testo, fino a
quando nel 1987 un sacerdote e matematico francese esperto di crittografia, Pierre Costabel, scoprì che
Leibniz era riuscito a svelare la formula
generale dei poliedri semplici, scoperta e descritta da Cartesio nel
suo taccuino, ma resa pubblica da Eulero soltanto nel
1730.
Un altro segreto
Che il segreto custodito dal taccuino di
Cartesio non fosse soltanto la formula dei poliedri è la tesi avanzata da Amir Aczel, matematico e divulgatore scientifico
del Bentley College di Boston, nell'opera Descartes' Secret
Notebook (2005).
Dell'intero taccuino, costituito da 16
pagine rilegate accuratamente in pergamena, illustrato da disegni e con simboli
alchimistici e cabalistici Leibniz, per una restrizione imposta dallo
stesso Clerselier riuscì a prenderne brevi appunti solo relativamente ad alcune
pagine che egli stesso poi non divulgò: il resto delle pagine, dopo la morte di
Claude Clerselier e dell'abate Jean-Baptiste Legrand (1704), collaboratore di
Baillet, scomparve così come sparirono le carte che Legrand aveva preparato per
pubblicare un'edizione di tutte le opere di Cartesio
Cartesio e i Rosacroce
La decisione di Cartesio di ritirarsi a
vivere in Olanda, dove soggiornò per vent'anni (salvo brevi viaggi a Parigi nel
1644, nel 1647 e nel 1648) e che lasciò non per tornare in Francia ma per
andare in Svezia era dovuta, come egli stesso scrisse nel Discorso
sul metodo, alla liberalità delle leggi sulla stampa che vigevano in quello
Stato pacifico e prospero. Tuttavia sembra che Cartesio fosse stato in realtà
costretto a lasciare la patria per le accuse che sin dal 1623 e poi dal 1629 lo
indicavano come un rosacrociano.
Il problema di un possibile rapporto tra
Cartesio e i Rosacroce fu sollevato per primo dal
biografo Adrien Baillet il quale, citando passi di un
perduto Studium bonae mentis sostiene che Cartesio pensò che i
rosacrociani potessero aver scoperto proprio quella nuova scienza che egli
aveva intuito e che andava abbozzando.
Si può escludere che egli si sia mai
affiliato a quella setta e non si sa se abbia mai conosciuto un rosacrociano,
ma in qualche modo Cartesio dovette venire a conoscenza delle loro opinioni
visto che, nella sezione del suo registro intitolata Cogitationes
privatae compare il progetto di un Thesaurus mathematicus di
'Polybii Cosmopolitani' (uno pseudonimo di Cartesio che allude a Polibio di Megalopoli) dove scrive:
«Quest’opera contiene i veri mezzi per
superare tutte le difficoltà di questa scienza e dimostrare come, riguardo ad
essa, lo spirito umano non possa spingersi più lontano; scritta per provocare
l’esitazione o schernire la temerarietà di quanti promettono nuove meraviglie
in tutte le scienze, e allo stesso tempo per alleviare le gravi fatiche dei
Fratelli della Rosacroce i quali, lanciati notte e giorno nelle difficoltà di
questa scienza, vi consumano inutilmente l’olio del loro genio; dedicata
infine ai sapienti del mondo intero e specialmente agli Illustrissimi F.
(Fratelli) R. (Rosa) C. (Croce) di Germania. »
|
Il "taccuino segreto" di
Cartesio
La segretezza che Cartesio volle dare ad
alcuni suoi scritti era quindi dovuta al timore di un intervento
dell'Inquisizione ai suoi danni non solo per le sue opere a carattere
scientifico ma anche per la sua supposta aderenza ai Rosacroce.
Il girovagare continuo che il filosofo
fece in terra olandese soggiornando per brevi periodi in case private, in
alberghi, in piccoli villaggi e il rimanere in contatto con i dotti europei
solo tramite padre Marin Mersenne, l'unico che conoscesse il suo
indirizzo, sembra dimostrare la volontà di sfuggire a un nemico tanto
pericoloso che quando Cartesio venne a sapere nel 1633 della condanna di Galilei non si ritenne al sicuro neppure
in Olanda rinunciando a pubblicare un suo trattato di fisica, Il mondo
ovvero trattato della luce e l'uomo[114], basato sulla teoria eliocentrica copernicana e sulle scoperte
di Keplero.
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https://it.wikipedia.org/wiki/Cartesio