Ogni anno nel mondo circa 12 ragazze
su 100 mila comprese tra i 13 e 30 anni di età si ammalano di bulimia nervosa.
Il dato è del ministero della Salute, che avverte : sebbene sia difficile
stilare statistiche ufficiali, gli studi clinici segnalano un allargamento e un
inasprimento del fenomeno, sempre più precoce e sempre più diffuso non solo tra
le donne (secondo la stima attuale più del 10 per cento dei pazienti sono
maschi, ma la letteratura internazionale parla anche del 15), con un tasso di
mortalità del 4 per cento. Altro aspetto allarmante: pochi accettano di farsi
curare, e la cura non sempre è quella giusta. Adesso dagli Stati Uniti arriva
una conferma importante: sui ragazzi bulimici quella che funziona meglio è la terapia
familiare. La ricetta non è nuova, specie nel mondo anglosassone, ma finora
nessuno ne aveva verificato la validità su vasta scala. Lo hanno fatto Daniel
Le Grange (Ospedale pediatrico Ucsf Benioff di San Francesco), e James Lock
(Stanford University School of Medicine), che a novembre pubblicheranno gli
esiti del loro studio sul Journal of the
American Academy of Child and Adolescent Psychiatry. I ricercatori hanno
messo a confronto i risultati di due diverse terapie (familiare e individuale)
su un campione di 130 pazienti tra i 12 e i 18 anni. Al termine
dell’esperimento, il 49 per cento dei ragazzi curati con la terapia familiare
aveva abbandonato i comportamenti bulimici, contro il 32 per cento di quelli
curati individualmente. Ma perché la famiglia ha un impatto così incisivo sulla
guarigione? Perché, in molti casi, lo ha avuto anche sulla malattia. Spiega
Maria Gabriella Gentile, referente del Centro disturbi alimentari del Cdi
(Centro diagnostico italiano): “La bassa autostima, che è alla base dei
disturbi del comportamento alimentare, deriva spesso da atteggiamenti dei
genitori: iperprotezione, messaggi distorti, assenza. Intervenendo su di loro è
più facile avvicinarsi al cuore del problema. Purtroppo, il nostro sistema sanitario
non è pronto a garantire questo tipo di terapia, piuttosto lunga e, quindi,
costosa”.Com’è noto, mentre il soggetto anoressico digiuna a oltranza, quello
bulimico cede periodicamente al cibo senza riuscire a controllarsi (pochi
minuti dopo potrebbe non ricordare neppure cosa ha mangiato). Segue
l’espiazione attraverso vomito, lassativi e digiuni. A differenza delle persone
anoressiche, riferisce Gentile, “le bulimiche hanno una minore capacità di
controllo sul corpo, il che le porta a ritenersi meno vincenti. Ma anche meno a
rischio: il tasso di successo della cura risulta infatti maggiore rispetto a
quello nelle persone anoressiche; inoltre essendo più o meno normopeso, anche
il margine di recupero fisico è più ampio. Per la stessa ragione, però, diagnosticare
la bulimia non è semplice. La frequenza delle abbuffate è un fattore decisivo:
una a settimana per un periodo di tre mesi o più deve far entrare in allarme. E
qui inizia la sfida: per il bulimico, infatti, la perdita di controllo sul peso
equivale al fallimento personale, e convincerlo a curarsi significa, in un
primo momento, convincerlo a fallire.
Giulia Villoresi – Scienze-Tecnologia-Psicologia-natura-medicina- Il Venerdì di Repubblica – 9
ottobre 2015
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