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lunedì 14 maggio 2012

Lo Sapevate Che: Inventori




Chi Vuol Essere
Inventore Milionario?

Conosciamo tutti la storia della mela, la Apple, partita con la banalissima idea di rendere i personal computer più facili da usare anche per quello come me, che già hanno serie difficoltà con i telecomandi dei televisori. Cominciò da un gruppo di amici, un matto visionario e fanatico chiamato Jobs, il garage del padre adottivo, 10mila dollari investiti su di loro da un finanziere et voilà, quarantasei anni più tardi la azienda che ha sede in una cittadina della California intitolata a un frate francescano pugliese, San Giuseppe da Cupertino, vale da sola più dell’intera Borsa italiana. Non che ci voglia molto.
Ma senza arrivare al successo mostruoso della Apple, L’America è ancora piena di storie di piccole idee. Di fortune dall’ago alla portaerei, di “uova di Colombo”, di lampadine improvvisamente accese sulla testa, come all’Archimede Pitagorico di Topolino, che da nulla si trasformano in cascate di milioni. Il “sogno americano”, ormai più della casa, che ha tradito tanti, resta quello di essere padroni di  se stessi, di lavorare in proprio. E inventarsi il modo per farlo.
Rosie Di Lullio, per esempio. E’ una donna che semplicemente ama i cani. Per anni aveva tentato di convincere il suo labrador cioccolato a non mettere il muso fuori dal finestrino, come tutti i cani adorano fare per annusare i milioni di odori che solleticano il loro naso. Piacere pericolosissimo, questo, perché espone i loro occhi alla polvere, al pietrisco aguzzo sparato dai camion, ai raggi ultravioletti del sole.
Con qualche soldo risparmiato, senza prestiti ne finanziatori, Rosie si fece produrre da una fabbrica di occhiali il prototipo di occhialoni di protezione con elastico e finiture di gomma morbida, come porta Snoopy quando s’immagina di duellare in cielo con il Barone Rosso. La sua società ha incassato, nel 2011, 3 milioni di dollari.
Gauri Nanda, una studentessa del celebrato Mit, il politecnico del Massachusetts, era semplicemente pigra e amava dormicchiare dopo il trillo della sveglia. Quando l’arnese suonava, premeva il tasto “snooze”, appunto sonnecchia, per qualche minuto ancora, e arrivava regolarmente tardi alle lezioni. Da brava futura ingegnera, Gauri ebbe un’idea: perché non sfruttare la sua preparazione nel progettare robot e applicarla alla sveglia? Con pezzi di plastica, chip e piccoli display trovati in giro, produsse una sveglia su ruote da appoggiare a fianco del letto. Quando suona, e lei, pigrona, pigia il bottone “sonnecchia”, il robot si muove, scappa, viaggia per la stanza e riprende a squillare. L’unico modo per zittirlo è alzarsi e inseguirlo. A quel punto, il più è fatto. “Clocky”, così chiama, è venduto in 45 nazioni. Produce 10 milioni di dollari annui e ha già generato un erede, “Tocky”, che salta giù dal comodino e gironzola suonando.
Quando aveva 13 anni e tentava invano di mangiare una pizza, Mike Miller aveva perso la pazienza con la forchetta con la quale non riusciva a tagliare la crosta. Pensa e ripensa, decise di tentare una soluzione con un amico che conosceva un fabbro. Si fece prestare dal nonno 10mila dollari e ne uscì “Knork”, da Knife coltello e fork, forchetta, insomma un “forchello” o una “coltetta”, anche se questa formulazione suona molto male. Fatturato annuo: 2 milioni di dollari.
La fortuna di Ken fu invece il tacchino. Una lite in famiglia, tra parenti, proprio nel giorno della pace e della serenità, il Ringraziamento, ispirò Ken Ahroni. Quando venne il momento di spezzare l’osso dei desideri a forma di forcella che sta nel petto del pollastrone, scoppiò la rissa, con pianti, grida e devastazione dello spirito festoso. Poiché non si possono certo comperare e cuocere tanti tacchini per quante paia di ospiti ci sono, avendo la povera bestia un solo osso a forcella, Ken, ebbe l’idea di produrre finte ossa di plastica a forma di “Y” per permettere il gioco del desiderio a volontà, senza ogni volta dover massacrare un tacchino o un cappone. Ne sta vendendo a secchiate e incassa 4 milioni di dollari.
Naturalmente, dopo avere letto di questi grandi successi di piccoli inventori, che traducono un’idea in pacchi di soldi e in aziendine di successo, resta sospeso un dilemma irrisolto. Sono geni loro, o sono scemi quelli che comprano le loro invenzioni?
Vittorio Zucconi – Donna di Repubblica 28-04-12

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