Ventinove anni fa a Barcellona
Pozzo di Gotto, in provincia di Messina, la mafia uccideva Beppe Alfano,
corrispondente del quotidiano “La Sicilia” di Catania. Alfano venne assassinato
l’8 gennaio del 1993 a soli 47 anni per le sue inchieste giornalistiche su Cosa
nostra.
Aveva
raccontato la guerra tra cosche nel Messinese, gli
affari per i maxi-appalti per i lavori pubblici, gli scandali legati alle frodi
di produttori agrumicoli che intascavano illegalmente i fondi europei.
L’omicidio Alfano si inserisce nella lunga lista di delitti di mafia avvolti da
misteri. Varie sono le trame mai chiarite intorno alla vicenda.
Il 24 dicembre scorso il gip del Tribunale di Messina, Valeria Curatolo, ha
archiviato il processo a carico di Stefano Genovese e Basilio Condipodero, che
erano accusati di essere gli esecutori materiali dell’omicidio ma
contestualmente ha disposto nuove indagini, ritenendo necessario fare alcuni
approfondimenti sull’arma del delitto, ritrovata. Uno spiraglio di luce per una
possibile verità.
Diversi elementi emersi nel corso delle indagini hanno evidenziato come Beppe
Alfano sarebbe riuscito a venire a conoscenza della latitanza del capo mafia
Nitto Santapaola nella sua Barcellona Pozzo di Gotto. Ma 28 anni dopo la sua
morte, non si sa ancora il preciso movente dell’omicidio né si ha il quadro
completo dei mandanti. Gli unici condannati in via definitiva sono il boss
barcellonese Giuseppe Gullotti, la cui condanna è ora però in fase di
revisione, e Antonino Merlino, ritenuto il killer
Fin
dai trascorsi universitari a Messina, alla facoltà di Economia e Commercio,
Beppe unisce agli studi due grandi passioni: la politica e il giornalismo. Le
sue idee di uomo di destra, fautore inflessibile della legalità e del rispetto
per le regole, lo avvicinano inizialmente al movimento estremista Ordine Nuovo e
successivamente al Movimento
Sociale Italiano di Giorgio Almirante. Sul fronte giornalistico,
predilige la dimensione investigativa del cronista di strada.
Entrambe
le passioni, però, subiscono un brusco arresto, quando, in seguito alla morte
del padre, decide di abbandonare gli studi e di trasferirsi in Trentino con la
compagna Mimma
Barbarò (che poi sposerà). Qui inizia la carriera
d’insegnante di educazione tecnica, che prosegue al ritorno in Sicilia, nel
1976, presso una scuola media di Terme Vigliatore.
Siamo
alla fine degli anni Settanta e quello che si trova di fronte è un contesto
politico locale mutato, che ne delude le aspettative e l’impegno in politica.
Il clima che accompagna la sua candidatura alle elezioni comunali, per una
lista civica, è pesante e presto si accorge di essere visto come un personaggio scomodo,
uno che dà fastidio. La mancata elezione non lo scoraggia e traspone sul piano
giornalistico la lotta all’affarismo occulto e alla corruzione, imperanti in
quegli anni.
Inizia
con alcune radio provinciali per passare negli anni Ottanta a emittenti
televisive locali come Telecity e Telenews,
collaborando nel contempo al quotidiano catanese La Sicilia,
come corrispondente locale di politica, cronaca, sport. In buona sostanza,
tutto quello che accade a Barcellona passa attraverso la sua penna e in molti
casi si profila per mezzo della propria spiccata “capacità intuitiva”, che lo
porta a precorrere eventi e situazioni. Le stesse forze dell’ordine considerano
i suoi articoli una valida fonte d’indagine.
Del malaffare strisciante che
rende incerti i confini tra mafia, politica ed economia, Beppe dimostra di
conoscere molto. Troppo per alcuni personaggi che a un certo punto gli fanno
capire che deve fermarsi. Dall’altra parte però c’è un uomo che non si lascia
intimidire, tant’è che arriva a rivelare alla moglie e alle due figlie di
essere al corrente della sua imminente fine.
Il
disegno criminoso si consuma un venerdì notte. Rincasando con la moglie,
davanti al portone d’ingresso nota qualcosa di strano e, raccomandando alla
donna di chiudersi in casa, si mette alla guida della Renault rossa. Pochi
metri dopo, lungo via
Marconi, viene freddato da tre colpi di pistola al petto, alla
testa e in bocca.
La
firma di cosa nostra nelle modalità di esecuzione appare più che evidente.
Eppure, grazie a una sotterranea strategia di depistaggio e
di diffamazione della vittima, le indagini procedono inizialmente in altre
direzioni. Lo stesso iter processuale non riesce a fare totale chiarezza sulla
vicenda, fermandosi alla condanna dell’esecutore materiale Antonino Merlino e
del mandante Giuseppe Gullotti.
Anni
dopo, le rivelazioni del collaboratore di giustizia Maurizio Avola, legato alla
cosca di Nitto Santapaola e implicato nell’omicidio di un altro
giornalista, Giuseppe
Fava (ucciso nel 1984), offrono un quadro diverso della
verità. Secondo quest’ultimo, Alfano sarebbe stato ucciso per aver scoperto il
giro di riciclaggio
di denaro sporco, che si nascondeva dietro il commercio degli
agrumi e al quale erano legati gli interessi del boss Nitto Santapaola e quelli
di insospettabili imprenditori legati alla massoneria.
Nel
frattempo, seppur con colpevole ritardo, la figura di Beppe Alfano esce
dall’anonima dimensione locale e balza all’attenzione dei media nazionali e
dell’opinione pubblica. Si scopre che è morto da precario e solo dopo la morte
gli viene assegnato il tesserino di giornalista. Per merito della figlia Sonia Alfano,
impegnata in politica e nel sociale per i diritti dei familiari delle vittime
della mafia, la vicenda giudiziaria sulla morte del padre viene riaperta e nel
2014 offre nuovi scenari con le rivelazioni del pentito Carmelo D’Amico.
https://metropolitanmagazine.it/la-mafia-uccide-il-cronista-beppe-alfano-quasi-30-anni-senza-verita/
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