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Presa di Roma |
La presa di Roma, nota anche
come breccia di Porta Pia, fu l'episodio del Risorgimento che sancì
l'annessione di Roma al Regno d'Italia.
Avvenuta il 20 settembre 1870, decretò la fine
dello Stato Pontificio quale entità
storico-politica e fu un momento di profonda rivoluzione nella gestione
del potere temporale da parte
dei papi. L'anno successivo
la capitale d'Italia fu trasferita da Firenze a Roma (legge 3
febbraio 1871, n. 33). L'anniversario del 20 settembre è stato festività
nazionale fino al 1930, quando fu abolito a seguito della firma dei Patti Lateranens
Il desiderio di porre Roma a capitale
del nuovo Regno d'Italia era già stato esplicitato da Cavour nel suo discorso
al parlamento italiano il 27 marzo 1861. Cavour prese poco dopo i contatti a Roma con Diomede Pantaleoni, che aveva ampie conoscenze
nell'ambiente ecclesiastico, per cercare una soluzione che assicurasse
l'indipendenza del papa.
Il principio era quello della
"libertà assoluta della Chiesa" cioè la libertà di coscienza,
assicurando ai cattolici l'indipendenza del pontefice dal potere civile.[2] Inizialmente si
ebbe l'impressione che questa trattativa non dispiacesse completamente a Pio IX e al
cardinale Giacomo Antonelli, ma questi dopo poco,
già nei primi mesi del 1861, cambiarono atteggiamento e le trattative non
ebbero seguito.
Poco dopo Cavour affermò in parlamento
che riteneva «necessaria Roma all'Italia» e che prima o poi Roma sarebbe stata
la capitale, ma che per far questo era necessario il consenso della Francia. Sperava che l'Europa
tutta sarebbe stata convinta dell'importanza della separazione tra potere
spirituale e potere temporale e quindi riaffermò il principio di «libera Chiesa in libero Stato».
Cavour già nell'aprile scrisse al principe Napoleone per convincere
l'imperatore a togliere da Roma il presidio
francese che lì si trovava. Ricevette anche dal principe un abbozzo di
convenzione:
«Fra l'Italia e la Francia, senza
l'intervento della corte di Roma, si verrebbe a stipulare quanto segue: |
(in Cadorna, La
liberazione[2]) |
Il conte di Cavour vi acconsentiva in
linea di massima, perché sperava che la stessa popolazione romana avrebbe
risolto i problemi senza bisogno di repressioni da parte di governi stranieri,
e che il Papa avrebbe infine ceduto alle spinte unitarie. Le uniche riserve
espresse riguardavano la presenza di truppe straniere. La convenzione però non
arrivò a conclusione per la morte di Cavour, il 6 giugno 1861.
Bettino Ricasoli, successore di
Cavour, cercò di riaprire i contatti con il cardinale Antonelli già il 10 settembre
1861, con una nota in cui faceva appello «alla mente ed al cuore del Santo
Padre, perché colla sua sapienza e bontà, consenta ad un accordo che lasciando
intatti i diritti della nazione, provvederebbe efficacemente alla dignità e
grandezza della chiesa».[2] Ancora una volta
Antonelli e Pio IX si mostrarono contrari. L'ambasciatore francese a Roma
scrisse al suo ministro che il cardinale gli aveva detto:
Da quel momento ci fu uno stallo nelle
attività diplomatiche, mentre rimaneva viva la spinta all'azione di Garibaldi e dei mazziniani. Ci furono una serie
di tentativi tra cui quello più noto si concluse all'Aspromonte ove i bersaglieri fermarono, dopo
un breve conflitto a fuoco, Garibaldi che stava risalendo la penisola con una
banda di volontari diretto a Roma.
Agli inizi del 1863, il governo Minghetti riprese le
trattative con Napoleone III, ma dopo questi avvenimenti Napoleone pretese
maggiori garanzie. Si arrivò quindi alla convenzione di settembre 1864, un accordo
con Napoleone che prevedeva il ritiro delle truppe francesi, in cambio di un
impegno da parte dell'Italia a non invadere lo Stato Pontificio. A garanzia
dell'impegno da parte italiana, la Francia chiese il trasferimento della capitale
da Torino ad un'altra
città, che sarebbe stata poi Firenze. Entrambe le parti
espressero comunque una serie di riserve, e l'Italia si riservava completa
libertà d'azione nel caso che una rivoluzione scoppiasse a Roma, condizioni che
furono accettate dalla Francia, che riconobbe in questo modo i diritti
dell'Italia su Roma.[2]
Nel settembre 1867 Garibaldi fece
un nuovo tentativo sbarcando nel Lazio. In ottobre i francesi sbarcarono a Civitavecchia e si unirono
alle truppe pontificie scontrandosi con i garibaldini. L'esercito italiano, in ottemperanza alla
Convenzione di settembre, non varcò i confini dello Stato Pontificio. Il 3
novembre i garibaldini furono sconfitti nella Battaglia di Mentana. Tornata la pace, i soldati francesi,
nonostante quanto previsto dalla Convenzione di settembre, lasciarono una
guarnigione di stanza nella fortezza di Civitavecchia e due presidi, uno
a Tarquinia e uno a Viterbo (in tutto 4.000
uomini)
L'8 dicembre 1869 il papa indisse
a Roma il concilio ecumenico Vaticano I volendo risolvere il problema dell'infallibilità papale, questa decisione destò preoccupazione
nella classe politica italiana per il timore che servisse al Papa per
intromettersi con maggior autorità negli affari politici dello stato[2]. Il 9 dicembre Giovanni Lanza, nel discorso di
insediamento alla presidenza della Camera dei deputati, dichiarò che «siamo
unanimi a volere il compimento dell'unità nazionale; e Roma, tardi o tosto, per
la necessità delle cose e per la ragione dei tempi, dovrà essere capitale
d'Italia».[2] Alla fine del
1869 lo stesso Lanza, alla caduta del terzo gabinetto Menabrea, si insediò come nuovo capo del Governo.
Nel 1870 si propagarono nella penisola diverse insurrezioni di matrice mazziniana. Tra le più note vi
fu quella di Pavia, dove il 24 marzo un
gruppo di repubblicani assaltò una caserma. Il caporale Pietro Barsanti, in servizio nella
caserma ed anch'egli mazziniano, rifiutò di reprimere i rivoltosi, contribuendo
anzi a fomentare la rivolta. Arrestato e negatagli la grazia sovrana, Barsanti
fu giustiziato il 26 agosto tra numerose polemiche. Lo stesso Giuseppe Mazzini, nel suo ultimo
tentativo di battere sul tempo la monarchia, partì per la Sicilia tentando di
sollevare un'insurrezione ma venne arrestato il 13 agosto 1870 e condotto in
prigione a Gaeta.
Il 15 luglio 1870 il governo di
Napoleone III dichiarò guerra alla Prussia (dichiarazione consegnata il 19).
L'Italia decise di attendere lo sviluppo della situazione. Il 2 agosto la
Francia, desiderosa di ottenere l'appoggio dell'Italia, avvertì il governo
italiano che era disponibile a ritirare le proprie truppe da Civitavecchia e
dalla provincia di Viterbo. Il 20 agosto alla Camera furono presentate
interpellanze da vari deputati, tra cui il Cairoli e il Nicotera (della Sinistra), che chiesero di
denunciare definitivamente la Convenzione del 15 settembre e di muovere su
Roma.[2] Nella sua
risposta il governo ricordò che la Convenzione escludeva i casi
straordinari e proprio questa clausola aveva permesso a Napoleone III
di intervenire a Mentana. Nel frattempo comunque i francesi abbandonarono Roma.
Il ritiro fu completato il 3 agosto 1870[4]. Di nuovo si mosse la
diplomazia italiana chiedendo una soluzione della Questione romana. L'imperatrice Eugenia, che svolgeva in quel momento le funzioni di reggente, inviò la nave da
guerra Orénoque a stazionare davanti a Civitavecchia.
Quando le vicende della guerra franco-prussiana stavano già volgendo al peggio per
i francesi, Napoleone III inviò a Firenze il principe Napoleone per chiedere
direttamente a Vittorio Emanuele II un intervento militare, ma, nonostante
alcune pressioni in tal senso (in particolare del generale Cialdini), la richiesta non
ebbe seguito[5]. Il 4 settembre 1870 cadeva il Secondo Impero, e in Francia veniva proclamata la Terza Repubblica. Questo
stravolgimento politico aprì di fatto all'Italia la strada per Roma.
https://it.wikipedia.org/wiki/Presa_di_Roma
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