Aumentano le lapidi nella Spoon river
digitale. Sepolti o cremati, eppure “vivi” nel news feed degli amici. Ma c’è il
sospetto che mentre i morti vivono, per i vivi postare sia un po’ morire. E
forse è stato proprio Mark Zuckerberg a insinuare involontariamente il dubbio,
parlando di “connessioni prive di attriti”. Tra i fantasmi non c’è attrito,
nemmeno quando si dedicano con impegno a risse e scannamenti touch. I nostri
profili, le nostre interazioni social, lo stesso dispositivo, promessa e
possibilità di estensione, apertura, potrebbe rivelarsi il luogo
dell’implosione della nostra soggettività, della nostra identità. Una gabbia di
vetro, per dirla con l’ultimo titolo di Nicholas Carr, all’interno della quale
le nostre esistenze si sclerotizzano, si appiattiscono su un sé impoverito ( se
non addirittura parodistico), depotenziato proprio mentre coltiva il godimento
di un’affermazione potenzialmente illimitata. Del resto non è questo il
mestiere degli algoritmi? Di quei nostri badanti in rete il cui compito
principale pare sia quello di farci sentire a casa, tra i “nostri” (amici,
oggetti, desideri, abitudini, aspettative, convinzioni…)? Offrendoci (in modo
del tutto interessato e redditizio, beninteso) la dimora di un godimento non
disturbato dall’Altro? Con poche finestre. Quasi una tomba, appunto. Insomma,
si affaccia il dubbio che una volta sottoposta alle regole del programma la
nostra individualità psichica, biologica, non venga conservata nella sua
integrità e possibilità, ma al contrario venga anestetizzata, come suggerisce
il filosofo Pietro Montani. Che i soggetti siano sempre di più soggetti
statistici, non senza che questo loro percorso volontario venga premiato da un
piacere che però preclude possibilità e imprevedibilità. Cioè vita. I
dispositivi tecno-sociali che veicolano
il nostro io in rete, riconfigurano nozioni quali identità, soggetto
consapevolezza, notava la psicologa-sociologa americana Sherry Turkle già agli
albori dell’esplosione dei social, ipotizzando che “la nostra vita connessa ci
permetta di nasconderci ai nostri simili nel momento stesso in cui offriamo la
nostra massima visibilità”. Su questa linea, che delimitava e riconfigurava la
mitologia social, facendo intravedere il vuoto, la solitudine, si è mosso una
parte del pensiero sociologico e filosofico più attento ai media sociali.
Provando ad aggirare il dibattito un po’ stantio tra web-entusiasti e
web-apocalittici, per concentrarsi sulla “carne vivva” della questione, che poi
siamo noi, la nostra vita psichica e sociale appunto. “Gli abitanti digitali
della rete non si riuniscono, manca loro la spiritualità del riunirsi, del
produrre un Noi, essi danno vita a un peculiare assembramento senza riunione, a
una massa senza spiritualità, senza anima o spirito. Sono principalmente individui isolati, hikikomori, ha scritto il
filosofo coreano-tedesco Byung-Chul Han. Descrivendo la nostra vita social come
un’apparizione di superfici dietro alle quali si aprono spazi spettrali:
“Fantasmi digitali”. Dividui, più che individui, nel tempo schiacciato dei
social. Il non tempo dei morti che sopravvivono nei loro profili. E dei vivi
che un po’ ci muoiono.
Marco Pacini – Culture Provocazioni – L’Espresso – 30 Ottobre
2016 -
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