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mercoledì 2 novembre 2016

Lo Sapevate Che: Ma il "profilo" può spegnere i vivi...



Aumentano le lapidi nella Spoon river digitale. Sepolti o cremati, eppure “vivi” nel news feed degli amici. Ma c’è il sospetto che mentre i morti vivono, per i vivi postare sia un po’ morire. E forse è stato proprio Mark Zuckerberg a insinuare involontariamente il dubbio, parlando di “connessioni prive di attriti”. Tra i fantasmi non c’è attrito, nemmeno quando si dedicano con impegno a risse e scannamenti touch. I nostri profili, le nostre interazioni social, lo stesso dispositivo, promessa e possibilità di estensione, apertura, potrebbe rivelarsi il luogo dell’implosione della nostra soggettività, della nostra identità. Una gabbia di vetro, per dirla con l’ultimo titolo di Nicholas Carr, all’interno della quale le nostre esistenze si sclerotizzano, si appiattiscono su un sé impoverito ( se non addirittura parodistico), depotenziato proprio mentre coltiva il godimento di un’affermazione potenzialmente illimitata. Del resto non è questo il mestiere degli algoritmi? Di quei nostri badanti in rete il cui compito principale pare sia quello di farci sentire a casa, tra i “nostri” (amici, oggetti, desideri, abitudini, aspettative, convinzioni…)? Offrendoci (in modo del tutto interessato e redditizio, beninteso) la dimora di un godimento non disturbato dall’Altro? Con poche finestre. Quasi una tomba, appunto. Insomma, si affaccia il dubbio che una volta sottoposta alle regole del programma la nostra individualità psichica, biologica, non venga conservata nella sua integrità e possibilità, ma al contrario venga anestetizzata, come suggerisce il filosofo Pietro Montani. Che i soggetti siano sempre di più soggetti statistici, non senza che questo loro percorso volontario venga premiato da un piacere che però preclude possibilità e imprevedibilità. Cioè vita. I dispositivi tecno-sociali  che veicolano il nostro io in rete, riconfigurano nozioni quali identità, soggetto consapevolezza, notava la psicologa-sociologa americana Sherry Turkle già agli albori dell’esplosione dei social, ipotizzando che “la nostra vita connessa ci permetta di nasconderci ai nostri simili nel momento stesso in cui offriamo la nostra massima visibilità”. Su questa linea, che delimitava e riconfigurava la mitologia social, facendo intravedere il vuoto, la solitudine, si è mosso una parte del pensiero sociologico e filosofico più attento ai media sociali. Provando ad aggirare il dibattito un po’ stantio tra web-entusiasti e web-apocalittici, per concentrarsi sulla “carne vivva” della questione, che poi siamo noi, la nostra vita psichica e sociale appunto. “Gli abitanti digitali della rete non si riuniscono, manca loro la spiritualità del riunirsi, del produrre un Noi, essi danno vita a un peculiare assembramento senza riunione, a una massa senza spiritualità, senza anima o spirito. Sono principalmente  individui isolati, hikikomori, ha scritto il filosofo coreano-tedesco Byung-Chul Han. Descrivendo la nostra vita social come un’apparizione di superfici dietro alle quali si aprono spazi spettrali: “Fantasmi digitali”. Dividui, più che individui, nel tempo schiacciato dei social. Il non tempo dei morti che sopravvivono nei loro profili. E dei vivi che un po’ ci muoiono.
Marco Pacini – Culture Provocazioni – L’Espresso – 30 Ottobre 2016 -

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