Nella Narrativa quel che è semplice non è
superficiale. Vale anche in un film. L’immagine come la scrittura. Per questo
Katie e Daniel, sacrificati sul calvario dell’ordinaria austerità burocratica,
resteranno nella memoria tra i protagonisti del grande cinema che hanno
superato tempi e mode, dal bianco nero in poi. E’ il giudizio dello spettatore
(senor) che guarda un film come legge un libro, non del critico che non è. E’
lo spettatore-lettore amante delle storie i cui significati profondi emergono
spontanei. Di “Io, Daniel Blagke” si è scritto molto, con ammirazione, a volte
con un’ammirazione in cui non mancava una certa condiscendenza: bello
drammatico ma di un candore elementare. E’ proprio quel che ho amato del film.
Oltre aver suscitato emozioni anche in spettatori incalliti, inclini allo
scetticismo, il regista, Ken Loach, ha scandito alcuni principi che sembravano
cancellati, smarriti, sepolti sotto la protesta populista dilagante. Con la
collera intatta, sopravvissuta alla polverizzazione dell’ideologia, e con la
scrittura lineare, specchio dei suoi sentimenti fermi ma non ingenui, il
regista ottantenne ci ha dato due personaggi, eroi dell’esclusione e
dell’umiliazione, che ci ricordano le vittime di tutte le crisi, di tutte le
politiche di rigore. Vittime del neoliberismo, versione integrale, disperse
negli strati vulnerabili della società. Attori tagliati su misura come Dave
Johns e Hayley Squires, sullo schermo Daniel e Katie.vivono la battaglia per la
sopravvivenza con energia, calore umano e humor disperato: lui, carpentiere
disoccupato, è la classe operaia che non viene più chiamata col suo nome; lei,
madre nubile di due figli, senza mezzi per continuare gli studi, è il ceto
medio declassato. Loach, con la sua macchina da presa, ha tratto da pubbliche
vergogne un fatto intimo: il racconto limpido e tragico della sorte di Daniel e
Katie. Sorte che sfiora anche le loro classi sociali. La Butto In Politica, col rischio di far rizzare il pelo a chi al cinema affida altre
ambizioni. Rievoco in breve la lotta disuguale tra da un lato un operaio vedovo
e sessantenne di Newcastle e dall’altro un’amministrazione semiprivatizzata e
avara, ansiosa di ridurre le spese, quindi il numero degli assistiti. La storia
è britannica ma potrebbe essere ambientata altrove. Il caso di Daniel Blake è
in apparenza semplice: secondo i medici, essendo appena scampato a una grave
crisi cardiaca non può lavorare. Ma l’invalidità non gli viene riconosciuta e
allora non gli resta che fingere di cercare invano un posto al fine di
risultare disoccupato e di ottenere le indennità come tale. Si crea così una
situazione ritmata dal dialogo assurdo tra i funzionari e l’operaio che non può
essere ammalato e non riesce a risultare disoccupato. Una lotta che si conclude
nella tragedia. Ci sono anche squarci di commedia. Daniel, un po’ in ritardo
sui tempi, scopre di non sapersi servire del computer, strumento ormai d’uso
corrente, o addirittura obbligatorio, anche nelle pratiche burocratiche. E
questa è un’altra barriera. Dall’incontro con Katie nasce una solidarietà
naturale, descritta con una semplicità che ne accresce il valore. Pure lei è
impigliata nell’ingranaggio di un Welfare State mutilato da Margaret Tharcher.
Disoccupato e ammalato Daniel è l’immagine della classe operaia ferita che
tende la mano a una esclusa dalla lower middle class, anch’essa ferita dalla
crisi economica e dal rigore liberista. E’ chiaro il gesto di Daniel che
fabbrica uno scaffale affinché Katie vi allinei i libri indispensabili per
riprendere gli studi e recuperare il posto perduto nella società. La collera di
Ken Loach non è quella populista. E’ il contrario. Lui non ha la retorica di
chi pretende di avere il monopolio della rappresentazione del popolo, e che
denuncia l’illegittimità di tutti gli altri sulla ribalta politica,
essenzialmente per motivi morali: perché corrotti, distanti dalla gente e
incapaci di difenderne gli interessi. Jan-Werner Muller, insegnante di teoria
politica e storia delle idee all’università di Princeton, sostiene che il
populismo non è soltanto antiélitario, è anche contro il pluralismo. Non
riconosce la diversità , alla base del Contratto sociale. Vede un popolo
omogeneo, che si esprime con una sola voce. Un fantasma, conclude il professore
di Princeton. I personaggi ideati per lo schermo da Ken Loach sono più umani,più
reali, dei fantasmi populisti.
Bernardo Valli -
Dentro e fuori www.lespresso.it - L’Espresso – 11 Novembre 2016 -
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