Il peccato mortale della politica è l’essersi ridotta a una classe di burocrati che forse cambierà la legge elettorale, ma ha smarrito l’ambizione di cambiare la realtà. Sono i mercati a indicare gli scenari, gli obiettivi e persino le cure. La politica si adegua passivamente, come una locomotiva agganciata in coda al treno. Ho ancora negli orecchi la voce roca di Clint Eastwood durante l’intervallo del Superbowl: quell’invito molto americano a vivere in rimonta, a non arrendersi alla sconfitta perché c’è sempre un secondo tempo da giocare. Ecco, in Europa i politici si comportano come se il secondo tempo non ci fosse più, come se la partita fosse già finita e perduta. Hanno vinto gli altri e a noi non resta che aggrapparci, rancorosi e nostalgici, agli ultimi privilegi di un mondo in frantumi. Lo chiamano realismo, ma nelle epoche di confine il realismo smette di essere un pregio e diventa un alibi per la rassegnazione lamentosa dei perdenti. Io sento il bisogno di politici rispettabili che sollevino gli occhi dai listini della Borsa e, camminando sull’esile filo che separa la passione dalla retorica, sovrastino la nenia dei depressi per indicare all’Europa e al mio Paese un traguardo, un orizzonte, un destino. Nella vita delle nazioni come in quella degli individui, la paura di perdere porta sempre alla sconfitta e vanifica i sacrifici che vengono fatti in suo nome. Lacrime e sangue, Churchill insegna, hanno un senso solo quando c’è un secondo tempo da giocare. |
Massimo Gramellini - La Stampa 09-02-12
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