LUIGI LA SPINA | |
Dopo la riforma delle pensioni e in vista di quella sul mercato del lavoro, la decisione di Mario Monti di non firmare la candidatura di Roma per le Olimpiadi del 2020 conferma e rafforza soprattutto l’impressione di una notevole discontinuità rispetto agli abituali metodi di governo. Di fronte a ben quattro mozioni, favorevoli a una scelta opposta, da parte dei partiti che lo sostengono in Parlamento, dopo una pioggia di appelli per il «sì» di sportivi, intellettuali e imprenditori, davanti a una potente lobby che ha esercitato fortissime pressioni, Monti ha evitato di seguire la strada più conveniente e, certamente, la più comoda. Quella di sostenere la candidatura di Roma, ben sapendo che, al «Comitato internazionale olimpico», i delegati avrebbero quasi certamente preferito Istanbul o Tokyo per la sede di quei Giochi. Sarebbe stato un modo per non scontrarsi con la sua maggioranza, non deludere il Coni e i promotori, non suscitare le proteste del sindaco della capitale e non subire le critiche di chi vedeva nell’Olimpiade romana un’occasione di sviluppo economico nazionale e, magari, di buoni affari per sé. Con la consapevolezza di raggiungere lo stesso risultato di risparmio per le finanze statali, nascondendosi dietro il paravento del Cio e delle opinioni internazionali sfavorevoli all’Italia. Il presidente del Consiglio, invece, ha deciso di assumersi la responsabilità, diretta e chiara, di un «no», motivato con la necessità della coerenza nel significato del suo governo, nella missione che la crisi economica del Paese gli ha imposto e nel rispetto del mandato che Napolitano gli ha affidato. Una scelta certamente difficile che, però, è stata agevolata da una sensibilità, rispetto agli umori degli italiani, che sembra sicuramente maggiore, in questi giorni, di quella che la tradizionale classe politica pare dimostrare. Le parole con le quali Monti ha spiegato i motivi del suo «no» alla candidatura di Roma fanno capire molto bene come il premier temesse il segnale contraddittorio, nei confronti dell’opinione pubblica, che una decisione diversa avrebbe assunto. L’incomprensione, cioè, verso un governo che, da una parte, chiede pesanti sacrifici a tutti e, dall’altra, si avventura in una iniziativa per la quale il rapporto tra i costi e i benefici non assicura un saldo positivo, con il rischio di vanificare parte di quello sforzo che i cittadini stanno compiendo per risanare i conti pubblici. Sono ormai molti i segnali, e quest’ultimo non è il meno importante, di come questo governo riesca, meglio dei partiti e anche delle forze sociali organizzate, a inserire il suo comportamento nelle attese dei cittadini. Lo testimonia, in senso contrario, la ritualità e la ripetitività delle reazioni che, anche ieri sera, sono arrivate dopo il «no» alla candidatura olimpica di Roma e il loro clamoroso contrasto con le risposte che, in quasi tutti i sondaggi d’opinione organizzati da tv e siti Internet, hanno confermato il sostanziale accordo della grande maggioranza degli italiani con la scelta di Monti. Al di là del metodo e della coerenza programmatica ispiratrice del governo, occorre valutare, infatti, le condizioni nelle quali l’Italia avrebbe avanzato quella candidatura. Per avallare, ma anche per rendere efficace, credibile e, alla fine, vincente una proposta simile al Comitato olimpico internazionale, occorre avere alle spalle una forte spinta unitaria di tutto un Paese. A questo proposito, è bene subito chiarire che non si tratta di giustificare le solite, meschine polemiche, a sfondo campanilistico, che si sono puntualmente levate contro una presunta insensibilità, milanese e nordista, di Monti e di alcuni suoi influenti ministri per una scelta che avrebbe favorito Roma. Commenti e sospetti che resuscitano uno sciocchezzaio, mentale e verbale, che davvero hanno ammorbato il recente passato e non vorremmo ammorbassero anche il nostro presente e futuro. E’ vero, invece, che la promozione olimpica di una città, a maggior ragione se si tratta di una capitale, procura vantaggi economici e d’immagine a tutta una nazione. Così è stato per la Spagna, nel caso di Barcellona e, se guardiamo al caso più vicino, nel tempo e nello spazio, per le Olimpiadi invernali di Torino. Ma nei due esempi citati, sia pure con l’importanza indubbiamente diversa dei due eventi, tutte le opinioni pubbliche nazionali, i «sistemi» dei due Paesi, come si suole dire adesso, avevano manifestato un convinto appoggio e una pronta disponibilità all’impegno organizzativo e finanziario. Per le Olimpiadi romane del 2020, è una constatazione non un’opinione, questo clima di fervore collettivo non è emerso. Si sono avvertiti, invece, un distacco e una certa indifferenza nazionale a una candidatura apparsa, forse, troppo sponsorizzata da lobby locali e subordinata a logiche politiche. Comprensibile può essere l’amarezza per la perdita di un’occasione di investimento infrastrutturale e, magari, di rilancio d’immagine. Ma gli italiani e anche i mercati internazionali si aspettano, da Monti, molto altro e molto di più che una candidatura olimpica |
La Stampa 15-02-12
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