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sabato 5 novembre 2016

Lo Sapevate Che: Al di là dei delitti e delle pene...



La madre ragusana accusata d’aver ucciso il figlio di 8 anni è stata condannata a 30 anni di reclusione, essendo stata ritenuta capace di intendere e di volere. Ora mi chiedo: ma quale essere umano che ammazza un altro essere umano (in questo caso addirittura il figlio) può essere giudicato “capace di intendere e di volere”, almeno nel momento in cui compie un tale delitto? Con questo non dico che chi commette un delitto debba essere lasciato libero, ma che occorre cambiare radicalmente l’approccio al tema della colpa, del reato e della sanzione a essi collegata. Significa, per esempio, che a una madre come quella d Santa Croce Camerina (o come quella di Cogne, che anni fa commise analogo delitto) non si può appioppare semplicemente una pena di 30 anni di carcere, senza porsi innanzitutto il problema di comprendere cosa può succedere nella testa (e nel cuore) di un essere umano quando compie gsti così disumani, e in secondo luogo senza mettere in atto le azioni terapeutiche possibili per provare (se non altro provare) a recuperarlo sul piano psicologico, prima ancora che morale.    Giovanni Lamagna  lamagnagio@tiscali.it

Questa Mia Risposta alla sua lettera non intende esprimere alcun giudizio sulla madre che la sentenza che la sentenza emessa dal tribunale dice abbia ucciso suo figlio e tanto meno esprimere un giudizio sulla sentenza. Vuole semplicemente tentare di capire come queste cose possono accadere. 1. Innanzitutto va detto che l’amore materno non è mai solo amore, perché ogni madre è attraversata dall’amore per il figlio, ma anche dal rifiuto del figlio. E questo “per natura”, perché nella donna, più marcatamente che nel maschio, si dibattono due soggettività: una rappresentanza del suo “io”, l’altra che la fa sentire “depositaria della specie”. Le due soggettività sono antitetiche perché l’una vive a spesa dell’altra. A guardare le cose dal punto di vista del suo “io”, per la donna mettere al mondo un figlio è una perdita secca. Deve assistere alla trasformazione del suo corpo, subire il trauma della nascita, soddisfare le esigenze del neonato che vive e si nutre del suo sacrificio: sacrificio del suo corpo a disposizione dell’allattamento, del suo tempo, del suo sonno, delle sue relazioni, talvolta del suo lavoro, della sua carriera, dei suoi affetti o dei suoi amori, che non sono unicamente per il figlio. Il conflitto tra queste due soggettività è ala base dell’amore, ma  anche dell’odio materno. (..).  2. Per quanto riguarda la capacità di intendere e volere, che per l’ordine giuridico fa la differenza tra il delinquente e il folle, è una categoria riservata alla religione: un peccato è mortale solo se compiuto con “piena avvertenza” (capacità d’intendere) e “deliberato consenso” (capacità di volere). Ma l’ordine religioso e quello giuridico non tengono finora conto della “capacità di sentire”, cioè se nel compiere il suo gesto il soggetto avverta una risonanza emotiva della sua azione.. Kant diceva che il bene e il male potremmo anche non definirli, perché ciascuno li “sente” naturalmente da sé. Non è sempre vero.  e oggi meno che mai. Quando anni fa ebbi l’occasione di intervistare i ragazzi che gettavano i sassi dal cavalcavia sull’autostrada, in loro non si avvertiva alcuna risonanza emotiva della gravità del loro gesto, e di conseguenza in loro non sorgeva alcun giudizio morale. Anche oggi mi piacerebbe sapere se chi molesta gli handicappati, chi svergogna sui social le ragazze, chi dà fuoco ai senzatetto che dormono sulle panchine, “sente” o “non sente” la gravità delle proprie azioni. Mi piacerebbe sapere se soggetti del genere avvertono la differenza tra parlar male di un professore o prenderlo a calci, tra corteggiare una ragazza o stuprarla. Perché se non avvertono questa differenza, allora sono privi di una facoltà fondamentale che non è né l’intendere né il volere, ma il “sentire”. E se questo non viene educato o, se perso, ricostruito, la condanna di quel soggetto, per quanti anni di galera possa fare, non cambierà. Siamo sempre lì. Il grande problema è l’educazione dei sentimenti. Ma chi provvede?
umbertogalimberti@repubblica.it – Donna di Repubblica – 29 Ottobre 2016 -

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