Scrittore Politico?
Ebbene Sì. Non c’è
una sola pagina di Umberto Eco, dalla tesi di laurea su San Tommaso d’Aquino
sino alle ultime “Bustine di Minerva”(..), che non riguardi anche la politica.
Giovane militante dell’Azione Cattolica negli anni Cinquanta, se ne allontana
dopo la svolta autoritaria di Gedda, e conserva per tutti i Sessanta
un’attenzione continua all’evoluzione della società intorno a sé, ovvero alle
forme della comunicazione. Se si può riassumere in una formula icastica tutto
il suo lavoro saggistico, filosofico, epistemologico, semiotico e letterario,
bisogna parlare della sua indefessa analisi dei processi comunicativi, quelli
che ogni società, la nostra in primis, istituisce per crescere e modificarsi
nel corso del tempo. Il percorso politico di Eco si può leggere nella colonna
dei saggi che attraversano tutta la sua produzione, la punteggiano e insieme
sorreggono le due principali travi, tenendole separate e unite: filosofia e
semiotica, da un lato; letteratura e narrazione, dall’altro. Partendo da
“Apocalittici e integrati” del 1964, libro allegro, scanzonato e provocatorio,
incunabolo di tutto quello che è venuto dopo, e in cui prevale la passione per
l’analisi della cultura di massa, s’arriva a “A passo di gambero” del 2006, che
già nel titolo esprime un giudizio sul marciare all’indietro della nostra
società, là dove Eco la faceva sempre procedere in avanti, spesso a passo di
danza. Sono libri straordinari per brillantezza, intelligenza, cultura, tutti
libri politici.; “Il Superuomo di massa”, “Il costume di casa”. “Dalla
periferia dell’impero”, Diario minimo”, “Sette anni di desiderio”, “Cinque
scritti morali”, “Costruire il nemico”. Dentro c’è la sua critica del tempo
presente, ma anche una profonda curiosità che culmina nei due temi che l’hanno
ossessionato: la menzogna e il complotto. Come non definire politici i suoi due
“nemici” cui ha dedicato pagine e pagine, sia nei saggi come nei romanzi?.
Dalla fondazione del Gruppo 63, poi alle pagine de “l’Espresso”, cui comincia a
collaborare nel 1965, fine alla firma di Dedalus, con cui attacca su “il
Manifesto” Pier Paolo Paolini negli anni Settanta riguardo ai temi dei diritti
civili (divorzio, e aborto), Eco manifesta una forte coerenza di fondo. La sua
è stata in definitiva una militanza politica condotta su giornali, riviste,
dentro case editrici e soprattutto sul tavolo da lavoro in cui sono nate le sue
opere. Persino il libro più famoso e celebrato, “Il nome della rosa”, nasce da
uno sguardo politico: il 1977 visto dalle stanze del Dams, a Bologna, tra Radio
Alice e l’Autonomia Operaia, a partire dall’immagine di un monaco che legge “il
Manifesto”, Libro sul fallimento del terrorismo negli anni dell’assassinio di
Aldo Moro, delle stragi e degli attentati. Politica voleva dire per lui
passione civile e morale. Si rileggano gli scritti degli anni del berlusconismo, pieni d’ironia,
sarcasmo e buon umore nonostante i passi all’indietro compiuto dalla società
civile dopo l’entusiasmo liberatorio dei Sessanta. Vi si troverà un illuminista
indomito, una specie di Voltaire , che invece di scrivere il suo “ Candide” e
ripiegarsi a coltivare l’orto di casa, ha sempre preferito uscire e osservare
il mondo, convinto che la buona politica avrà la meglio sulla stupidità e
l’imbecillità del mondo, le due sole cose che l’atterrivano davvero temendo, a
torto, di esserne in qualche modo toccato. Solo un moralista vero dubita di se
stesso.
Marco Belpoliti – Eco Politico – L’Espresso -3 marzo – 2016 -
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