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domenica 27 marzo 2016

Lo Sapevate Che: Bulli impuniti, scuola e famiglie disarmate...



Le inoltro il messaggio scritto da un professore a proposito della ragazzina di Pordenone che ha tentato di suicidarsi. Si è buttata dal secondo piano. Non è morta. Ma per la botta che ha preso ha rischiato di restare tutta la vita immobile, senza poter comunicare normalmente con gli altri. Sa darci non solo una lettura di questi disperati episodi, ma anche una visione progettuale e fiduciosa per la dura e sfidante arte dell’essere e fare il genitore?   Michela Puntel  michela.puntel@gmail.com
“Adesso vi dico una cosa. E sarò un po’ duro, vi avverto. Ma ce l’ho dentro ed è difficile lasciarla lì. Quando la finirete di mettervi in due, in tre, in cinque, in dieci contro uno? Quando finirete di far finta che le parole non siano importanti, che siano “solo parole”, che non abbiano conseguenze, e poi di mettervi li a scrivere quegli sms – li ho letti, sì, i messaggi che siete capaci di scrivere – tutte le vostre “troia di merda”, i vostri “figlio di puttana”, i vostri “devi morire”. Quando la finirete di dire “ma si, io scherzavo” dopo essere stati capaci di scrivere “non meriti di esistere”? Quando la finirete di ridere quando passa la ragazza grassa, di indicare col dito il ragazzo “che ha il professore di sostegno”, quando la finirete di dividere il mondo in fighi e sfigati? Che cosa deve ancor succedere, perché la finiate? Che cosa aspettate? Che tocchi al vostro compagno, alla vostra amica, a vostra sorella, a voi? E poi voi genitori, sì. Padri e madri dei figli capaci di scrivere certi messaggi. O di quelli che ridono così forte. Quando la finirete di chiudere un occhio? Di dire “Ma sì, sono ragazzate”? Di non avere idea di che diavolo ci fanno, 8 ore al giorno, i vostri figli con quel telefono? Di non leggere neanche le note e le comunicazioni che scriviamo sul libretto personale? Di venire da noi insegnanti una volta l’anno (se va bene)? Quando inizierete a spiegare ai vostri figli che la diversità non è una malattia o un fatto da deridere, quando inizierete a non essere voi i primi a farlo, perché da sempre non sono le parole ma gli esempi, gli insegnamenti migliori? Se una ragazzina di quell’età decide di buttarsi, non lo sta facendo da sola: una piccola spinta arriva da tutti quelli che erano lì e non hanno visto, non hanno fatto, non hanno detto”.

Gentile lettrice, grazie per avermi trasmesso la lettera del professore che, per la forza e la chiarezza della sua denuncia, ho deciso di pubblicare quasi per intero in modo che tanti la possano leggere. Per quanto riguarda le sue domande – perché succedono questi episodi e quale può essere una visione progettuale e fiduciosa su come essere e fare i genitori – le dico subito che di fiducia ne ho pochissima. Per due ragioni. La prima è che, a differenza di quanto accade nelle società povere, come era anche la nostra negli anni Cinquanta, nelle società opulente i richiami che provengono dalla società (per giunta ridotta a livello mercantile, al punto che gli operatori di mercato conoscono i nostri figli meglio dei loro genitori e dei loro professori) sono inviti al piacere, mentre i richiami che provengono dalla famiglia sono, almeno nelle intenzioni, inviti al dovere. Per effetto di questa divaricazione e della maggior forza del richiamo mercantile proveniente dalla società rispetto alla richiesta d’impegno proveniente dalla famiglia, vince il mercato. La seconda ragione della mia sfiducia è che oggi i genitori parlano pochissimo con i figli da piccoli e poi, quando crescono, si limitano a chieder loro come vanno a scuola o a che ora della notte tornano, temendo che, contrastandoli o ponendo loro regole e limiti, che non hanno mai stabilito prima, possa succedere il peggio. E invece il peggio succede perché i genitori non si sono mai davvero chiesti che cosa succedeva ai figli mentre crescevano, non hanno mai parlato davvero con loro, li hanno semplicemente riempiti di giocattoli che stavano al posto di tutte le parole mancate. Quanto all’esempio, che è l’unica cosa che serve dai 12 anni in poi, quando le parole dei genitori diventano influenti, vedendo i genitori di oggi, non mi pare ce ne sia di molto edificante. Il risultato è il bullismo, che è un arresto della psiche a livello “impulsivo”. Una psiche che ancora non si è evoluta a livello “emozionale”, in modo da registrare una risonanza emotiva delle proprie parole e delle proprie azioni che possa dare il senso del bene e del male, e tantomeno a livello “sentimentale”. Qui anche la scuola è gravemente colpevole, perché i sentimenti non sono dati per natura ma per cultura: dai primitivi che raccontavano miti, ai giorni nostri quando la letteratura racconta storie per farci conoscere cos’è l’amore, il dolore, la noia, il suicidio, la disperazione, la speranza, la tragedia, il senso della vita e l’ineluttabilità della morte. E quando non si conoscono i sentimenti, il terribile è già accaduto.
umbertogalimberti@repubblica.it – Donna di Repubblica – 19 marzo 2016

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