Le inoltro il messaggio
scritto da un professore a proposito della ragazzina di Pordenone che ha
tentato di suicidarsi. Si è buttata dal secondo piano. Non è morta. Ma per la
botta che ha preso ha rischiato di restare tutta la vita immobile, senza poter
comunicare normalmente con gli altri. Sa darci non solo una lettura di questi
disperati episodi, ma anche una visione progettuale e fiduciosa per la dura e
sfidante arte dell’essere e fare il genitore?
Michela Puntel michela.puntel@gmail.com
“Adesso vi dico una cosa. E sarò un po’ duro, vi avverto. Ma ce l’ho
dentro ed è difficile lasciarla lì. Quando la finirete di mettervi in due, in
tre, in cinque, in dieci contro uno? Quando finirete di far finta che le parole
non siano importanti, che siano “solo parole”, che non abbiano conseguenze, e
poi di mettervi li a scrivere quegli sms – li ho letti, sì, i messaggi che
siete capaci di scrivere – tutte le vostre “troia di merda”, i vostri “figlio
di puttana”, i vostri “devi morire”. Quando la finirete di dire “ma si, io
scherzavo” dopo essere stati capaci di scrivere “non meriti di esistere”?
Quando la finirete di ridere quando passa la ragazza grassa, di indicare col
dito il ragazzo “che ha il professore di sostegno”, quando la finirete di
dividere il mondo in fighi e sfigati? Che cosa deve ancor succedere, perché la
finiate? Che cosa aspettate? Che tocchi al vostro compagno, alla vostra amica,
a vostra sorella, a voi? E poi voi genitori, sì. Padri e madri dei figli capaci
di scrivere certi messaggi. O di quelli che ridono così forte. Quando la
finirete di chiudere un occhio? Di dire “Ma sì, sono ragazzate”? Di non avere
idea di che diavolo ci fanno, 8 ore al giorno, i vostri figli con quel
telefono? Di non leggere neanche le note e le comunicazioni che scriviamo sul
libretto personale? Di venire da noi insegnanti una volta l’anno (se va bene)?
Quando inizierete a spiegare ai vostri figli che la diversità non è una malattia
o un fatto da deridere, quando inizierete a non essere voi i primi a farlo,
perché da sempre non sono le parole ma gli esempi, gli insegnamenti migliori?
Se una ragazzina di quell’età decide di buttarsi, non lo sta facendo da sola:
una piccola spinta arriva da tutti quelli che erano lì e non hanno visto, non
hanno fatto, non hanno detto”.
Gentile
lettrice, grazie per avermi trasmesso la lettera del professore che, per la
forza e la chiarezza della sua denuncia, ho deciso di pubblicare quasi per
intero in modo che tanti la possano leggere. Per quanto riguarda le sue domande
– perché succedono questi episodi e quale può essere una visione progettuale e
fiduciosa su come essere e fare i genitori – le dico subito che di fiducia ne
ho pochissima. Per due ragioni. La prima è che, a differenza di quanto accade
nelle società povere, come era anche la nostra negli anni Cinquanta, nelle
società opulente i richiami che provengono dalla società (per giunta ridotta a
livello mercantile, al punto che gli operatori di mercato conoscono i nostri
figli meglio dei loro genitori e dei loro professori) sono inviti al piacere,
mentre i richiami che provengono dalla famiglia sono, almeno nelle intenzioni,
inviti al dovere. Per effetto di questa divaricazione e della maggior forza del
richiamo mercantile proveniente dalla società rispetto alla richiesta d’impegno
proveniente dalla famiglia, vince il mercato. La seconda ragione della mia
sfiducia è che oggi i genitori parlano pochissimo con i figli da piccoli e poi,
quando crescono, si limitano a chieder loro come vanno a scuola o a che ora
della notte tornano, temendo che, contrastandoli o ponendo loro regole e
limiti, che non hanno mai stabilito prima, possa succedere il peggio. E invece
il peggio succede perché i genitori non si sono mai davvero chiesti che cosa
succedeva ai figli mentre crescevano, non hanno mai parlato davvero con loro,
li hanno semplicemente riempiti di giocattoli che stavano al posto di tutte le
parole mancate. Quanto all’esempio, che è l’unica cosa che serve dai 12 anni in
poi, quando le parole dei genitori diventano influenti, vedendo i genitori di
oggi, non mi pare ce ne sia di molto edificante. Il risultato è il bullismo,
che è un arresto della psiche a livello “impulsivo”. Una psiche che ancora non
si è evoluta a livello “emozionale”, in modo da registrare una risonanza
emotiva delle proprie parole e delle proprie azioni che possa dare il senso del
bene e del male, e tantomeno a livello “sentimentale”. Qui anche la scuola è
gravemente colpevole, perché i sentimenti non sono dati per natura ma per
cultura: dai primitivi che raccontavano miti, ai giorni nostri quando la
letteratura racconta storie per farci conoscere cos’è l’amore, il dolore, la
noia, il suicidio, la disperazione, la speranza, la tragedia, il senso della
vita e l’ineluttabilità della morte. E quando non si conoscono i sentimenti, il
terribile è già accaduto.
umbertogalimberti@repubblica.it
– Donna di Repubblica – 19 marzo 2016
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