Qualche settimana fa ho
letto su D, nello stesso numero, la sua risposta a una lettera dedicata al
rapporto tra amore, libertà e pulsioni, e un articolo sulla gelosia come
sentimento riabilitato. Ciò mi ha portato a riflettere sull’idea contemporanea
di amore, giungendo alla conclusione che oggi c’è una gran confusione
sentimentale. Siamo gelosi in una società che ci impone di non esserlo.
Chiediamo libertà incondizionata in una società ancora radicata nei valori del
passato. Fondiamo ogni nostro investimento sull’amore e vacilliamo quando
l’effetto boomerang si fa sentire. Cosa vogliamo costruire? Credo che alla base
di tale confusione ci sia una difficile intelligibilità del sé, in un modo che
racchiude la pulsione di libertà e crea un corto circuito con quella del
possesso. Penso che, prima di poter dare qualcosa a qualcun altro, dovremmo
essere più consapevoli di noi stessi, ovvero prima di amare, dovremmo saperci
amare. Ma come amare se stessi quando non sappiamo dove collocarci? La vera
sfida è imparare ad amare noi stessi, e di conseguenza l’altro, dentro di noi.
E’ qui (e solo qui) la nostra sicurezza.
Caterina Bigliardo c.bigliardo@yahoo.it
Siamo soliti pensarci più evoluti di
quello che in realtà siamo e perciò affidiamo i nostri sentimenti di amore, di
odio, di fedeltà, di gelosia alle vicissitudini del nostro cuore, quando invece
altro non sono che macchine per garantire la nostra sussistenza nel modo meno
disastroso possibile. Gli antropologi, che hanno studiato le modalità di
convivenza dei primitivi, dove le condizioni di vita erano più naturali e meno
artificiali delle nostre, ma anche più precarie e meno garantite, ci dicono che
la gelosia non era qualcosa di connesso ai sentimenti d’amore, di fedeltà e di
tradimenti, ma semplicemente un requisito che garantiva le condizioni di
sopravvivenza dell’ordine tribale. Infatti, attraverso la gelosia di maschio si
tutelava dall’eventualità di allevare figli non suoi, e la donna, sempre
attraverso la gelosia, garantiva a sé e ai suoi figli cibo e sicurezza. Va da sé che quando la società passa dalla
povertà all’opulenza, dove le condizioni di sussistenza dipendono sempre meno
dalla solidità dei legami familiari, la gelosia cessa di svolgere la funzione
di garanzia della coesione del gruppo, per apparire come un sentimento
arretrato che risponde più al bisogno di possesso che all’amore. Da questo si
deduce che sono le condizioni sociali a decidere la natura e la qualità dei
sentimenti.(..). In una parola, sotto l’ostentata purezza dei nostri sentimenti
c’è in realtà una serie di condizioni che riteniamo necessario procurarci per
garantirci la vita. Perché è alla vita che noi siamo davvero attaccati e
l’amore è solo uno strumento per mantenerla nei modi che a noi sembrano più
opportuni. (..). Già nell’infanzia, quando abbiamo dovuto rinunciare al
possesso esclusivo di nostra madre, abbiamo iniziato a far crescere dentro di
noi la paura di essere abbandonati o rifiutati, o chiamiamo “amore” l’evento
che attenua e sopisce questa paura, finché il sospetto di un tradimento non
attiva la gelosia, che Shakespeare nell’Otello
definisce: “Un mostro dagli occhi verdi, che odia il cibo di cui si pasce”.
Questo cibo è l’amore che, quando esce di scena, indebolisce la vita. Cara
lettrice, con questa risposta alla sua lettera, che invita a cercare risposta
dentro di sé e nell’amore di sé ciò che ci rassicura nei nostri sentimenti, non
voglio deluderla, ma solo invitarla a considerare che spesso le radici dei
nostri sentimenti, anche di quelli che ci paiono più puri, affondano in regioni
misteriose dove quel che s difende non è l’amore, ma la vita.
umbertogalimberti@repubblica.it
– Donna di Repubblica – 27 febbraio 2016 -
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