“Thank You for the media”, è scritto su
un lenzuolo rosa che alcuni ragazzi e ragazzini dispiegano sulle rotaie, a
pochi metri dalla porta che li divide dalla Macedonia e che solo ve
ventiquattro ore prima è stata presa d’assalto da qualche centinaio di
migranti. Qui, ad Idomeni, Grecia, luogo di frontiera per lo più ignoto al
mondo e forse anche a parecchi greci fino a qualche mese fa, ogni giorno
arrivano circa mille persone, per passare di là. E una volta di là, rimettersi
in marcia fino al prossimo filo spinato. Ma di là non si passa o quasi. Per
cento che riescono a superare i filtratissimi criteri di selezione
all’ingresso, mille ne arrivano, e provare a sfondare con la forza il muro di
filo spinato, per ora ha almeno generato l’unico effetto di attirare media da
tutto il mondo. Meglio di niente, pensano gli accampati, e per questo oggi
ringraziano. Ringraziano che si mostri a chi non ha mai vissuto la guerra come
è fatta una fila di migliaia di persone che aspettano ore sotto al sole per
prendere un panino e una bottiglietta d’acqua. O un tè caldo e un biscotto (1
di numero). “Oggi ho mangiato una patata”, mi dice a tarda sera Mohammed, 23
anni, siriano di Homs. Con la sua famiglia dormono in sei dentro una tenda da
campeggio per due: “Mio fratello ha un anno e un giorno, il suo compleanno era
ieri. E’ malato. Mia moglie è malata. Mia madre è malata. Uno a uno, giorno
dopo giorno, ci stiamo ammalando tutti. Se avessi saputo che sarei venuto a morire
di freddo in Grecia, sarei rimasto a morire sotto le bombe in Siria”. Loro,
almeno, hanno una tenda. Altri nemmeno quella. Mentre cammino di notte lungo le
rotaie della ferrovia che taglia la frontiera, realizzo con ritardo che quelli
che a prima vista mi sembravano mucchi di vestiti buttati in terra in realtà
sono corpi immobili sotto le coperte. Ogni tanto spunta una testa, quasi sempre
di bambino. Mai visti tanti bambini in un posto come a Idomeni. Mai visti tanti invalidi, mutilati e feriti
in un posto solo come a Idomeni. L’odore della notte è quello di legna mista a
plastica e a tutto ciò che può tornare utile per accendere un fuoco. La colonna
sonora è quella dei colpi di tosse, dei migranti che urlano open the borsers, dei poliziotti che
rispondono go back!, dei clic delle
macchine fotografiche, del treno merci che passa da un Paese all’altro sotto
gli occhi di tutti, scortato dalla polizia. In questo posto, l’autodisciplina è
un equilibrio magico, inevitabilmente sull’orlo di spezzarsi, ma incredibilmente
resistente. Per tollerare di sopravvivere così senza impazzire per mesi ci
vogliono volontà, resistenza e determinazione da supereroe.
Diego Bianchi – Il Sogno di Zoro – Il
Venerdì di Repubblica – 11 marzo 2016
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