La Bustina Arrivava
Puntuale, senza
sbavature, preziosa, sempre sorprendente. Da qualche tempo con il titolo già
fatto. A conferma che Umberto Eco temeva certe forzature tipiche del
giornalismo, verso il quale esercitava libertà di critica (nel senso di Kant,
s’intende) e al quale rimproverava – con levità- sciatterie, superficialità,
spregiudicatezza nei giudizi. E una certa arroganza. Si rilegga “La smentita
della smentita” (1988), mirabile divagazione sul tema “se l’intervistato
smentisce e l’intervistatore smentisce la smentita”, immaginario scambio di
lettere tra Preciso Smentuccia e Aleteo Verità, giornalista. Lamenta lo
Smentuccia: “Nel corso della nostra breve intervista telefonica…non ho mai
detto che sto ingaggiando degli assassini per eliminare Giulio Cesare, bensì
sto incoraggiando l’assessore Filippi a eliminare il traffico in piazza Giulio
Cesare”. E replicava il Verità: “Prendo atto che il signor Smentuccia non
smentisce affatto che Giulio Cesare sia stato assassinato alle Idi di Marzo del
’44…Non è arrampicandosi sugli specchi che si può mettere il bavaglio alla
stampa”. Indimenticabile. Trent’anni fa, accettando di regalare a l’”Espresso”
una rubrica, Eco s’era preoccupato di chiarire che sarebbero stati poco più che
appunti “sull’ultimo libro letto, nell’intuizione che ci ha attraversato la
mente in autostrada mentre si frenava per non finire in coda a un Tir,
sull’essere e il nulla, sui passi celebri di Fred Astaire…” E però, rileggendo
le Bustine, si scopre che un filo robusto le lega. Intanto il metofo.
Enigmistico, verrebbe da dire: anagrammi, giochi di parole, deduzioni logiche.
E animato da esaltazione del pensiero-contro, elogio dell’errore come casualità
della scoperta, fascino per i cattivi. (Franti, Hyde, “l’affabilità della
filibusta” rivelata da Stevenson, irritazione per il dilagare dell’attimino e del vadi, vadi (1990) o del telefonino
(2015). Grazie a una sconfinata cultura, i calembour gonfiavano le vele della
sua imbarcazione spingendola verso porti imprevisti. In fin dei conti, più di
ogni altra sua opera, è proprio la Bustina a mostrare l’unicità di Eco: la
capacità di affrontare ogni argomento con chiarezza, ironia, con la
“leggerezza” cara a Italo Calvino. Dimostrando che pur servendosi di semiotica
e filosofia si può parlare di tutto a
tutti, di Dante e di Mike Bongiorno. Perfino di politica, e senza alzare il
ditino. Come nel dialogo postelettorale tra l’Autore e il Bonga (1987), in cui
l’ospite riassume: “Ho capito: non conta quanti siano i voti che un partito ha
guadagnato, ma a quale minoranza vincente siano andati quelli che ha perso…”.
Forza del sorriso colto. Come nella memorabile bustina (1986) in cui si
immagina la risposta dei Grandi alla domanda “Come sta?”. Solo un assaggio:
Ungaretti: “Bene (a capo) grazie”; Robespierre: “C’è da perderci la testa”;
Casanova “Vengo”; Dracula: “Sono in vena”; Madame Curie: “Sono raggiante”;
Leopardi: “Sfotte?”; Paganno: “L’ho già detto”; Schliemann: “Sotto sotto,
bene”; Nievo: “Le dirò, da piccolo…”; Spielger: “Bene, E.T.?”; Lucrezia Borgia:
“Prima beve qualcosa?”.Insomma, grande lezione di vita e di stile: mai
prendersi troppo sul serio. E mettere sempre la virgola prima del “ma”.
Bruno Manfellotto – Eco e le Bustine – L’Espresso – 3 marzo
2016 -
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