Dire Addio a Umberto
Eco è difficile e a
dire il vero mi pesa. Mi pesa sempre dover scrivere ricordi. Mi pesa perché i
ricordi hanno una consistenza diversa che, nella scrittura, diventa altro. I
ricordi sono fatti di odori e sensazioni irriproducibili sulla carta. Di suoni
leggeri. La scrittura, invece, quando ci si rapporta a una persona scomparsa,
si tramuta in epitaffio, e sa di marmo, di scalpello. Ed è pesante. Proverò a
tracciare, in queste righe, il mio ricordo di Umberto Eco, un ricordo
personalissimo e spero leggero, di quello che ha fatto per me. Ma non posso non
collegare tutto questo al ruolo che il professor Eco ha avuto nel nostro Paese,
un Paese spesso ingrato, ma che in lui ha trovato una sorta di garante. A ottobre
2006, pochi giorni dopo il mio intervento a Casal di Principe, e pochi giorni
dopo le prime minacce e l’assegnazione della scorta, Eco disse al Tg1 diretto
da Gianni Riotta delle parole che non dimenticherò, non solo perché erano di
sostegno alla mia situazione, ma perché indicavano una strada raramente
percorsa. Eco aveva trovato la chiave. Lui, lontano da me anni luce –
generazioni diverse, formazione diversa, provenienza territoriale diversa –
aveva dimostrato di possedere gli strumenti per capire esattamente cosa mi
stesse accadendo, cosa stesse accadendo all’Italia e al Sud, e lo disse nella
maniera più chiara possibile: “Il caso di Saviano si lega a Falcone e
Borsellino. Perché in questo caso sappiamo da dove arriva la minaccia, sappiamo
persino i nomi e i cognomi. Per questo non servono tanto gli appelli di
solidarietà degli scrittori. Sono inutili. Si tratta di intervenire
preventivamente e pubblicamente su un fenomeno di cui si sa tutto”. Sono
inutili gli appelli di solidarietà degli scrittori, ma bisogna intervenire su
un fenomeno di cui si sa tutto: l’appello di Eco era evidentemente alla
politica, perché se la solidarietà degli scrittori era inutile, conoscendo
l’origine del male, l’unica cosa da fare era (ed è) lavorare per debellarlo.
Eco, il professor Eco, semiologo, studioso di comunicazione, aveva compreso
qual’era l’unico modo per affrontare il problema criminale. Allo stesso tempo
mostrò solidarietà non all’icona antimafia, ma al giovane uomo che si era
trovato, per parole divenute marmo, in una vita impossibile. (..). Eco invitava
i suoi ragazzi a essere giraffe dal collo più lungo per sopravvivere mangiando
le foglie migliori, ma anche per riuscire a vedere più da vicino la bellezza
del cielo. Li portava a Torino, in visita al Salone del Libro, facendo da
Cicerone; condivideva con loro cene da amici, dando prova che per scambiarsi
pensieri non servono salotti, ma teste, magari un sigaro e un bicchiere di
scotch. Eco è stato un osservatore attento tutt’altro che silente. I suoi segni
più o meno visibili hanno puntellato i cambiamenti dell’Italia, con leggerezza
e senza retorica. Nonostante la corporatura, l’idea che sempre avuto di lui era
di un uomo che a mala pena sfiorava il suolo. Leggermente sospeso, un po’
giraffa, per l’abitudine a mangiare le foglie più alte, ma soprattutto capace
di guardare le cose separandole da sé attraverso una camera d’aria. Il
Professor Eco nella sua lunga vita accademica e di scrittore, ha dimostrato di
avere il raro dono della comunicazione, una comunicazione sottile ma chiara,
silenziosa, fatta sottovoce, ma evidente. Da semiologo conosceva la natura del
messaggio, sapeva che serviva un emittente e una persona disposta a riceverlo,
un destinatario. Ma soprattutto sapeva che tra emittente e destinatario c’era
il mondo.
Roberto Saviano – Eco e l’impegno – L’Espresso – 3 marzo 2016
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