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lunedì 7 marzo 2016

Lo Sapevate Che: Una vita con il collo lungo...



Dire Addio a Umberto Eco è difficile e a dire il vero mi pesa. Mi pesa sempre dover scrivere ricordi. Mi pesa perché i ricordi hanno una consistenza diversa che, nella scrittura, diventa altro. I ricordi sono fatti di odori e sensazioni irriproducibili sulla carta. Di suoni leggeri. La scrittura, invece, quando ci si rapporta a una persona scomparsa, si tramuta in epitaffio, e sa di marmo, di scalpello. Ed è pesante. Proverò a tracciare, in queste righe, il mio ricordo di Umberto Eco, un ricordo personalissimo e spero leggero, di quello che ha fatto per me. Ma non posso non collegare tutto questo al ruolo che il professor Eco ha avuto nel nostro Paese, un Paese spesso ingrato, ma che in lui ha trovato una sorta di garante. A ottobre 2006, pochi giorni dopo il mio intervento a Casal di Principe, e pochi giorni dopo le prime minacce e l’assegnazione della scorta, Eco disse al Tg1 diretto da Gianni Riotta delle parole che non dimenticherò, non solo perché erano di sostegno alla mia situazione, ma perché indicavano una strada raramente percorsa. Eco aveva trovato la chiave. Lui, lontano da me anni luce – generazioni diverse, formazione diversa, provenienza territoriale diversa – aveva dimostrato di possedere gli strumenti per capire esattamente cosa mi stesse accadendo, cosa stesse accadendo all’Italia e al Sud, e lo disse nella maniera più chiara possibile: “Il caso di Saviano si lega a Falcone e Borsellino. Perché in questo caso sappiamo da dove arriva la minaccia, sappiamo persino i nomi e i cognomi. Per questo non servono tanto gli appelli di solidarietà degli scrittori. Sono inutili. Si tratta di intervenire preventivamente e pubblicamente su un fenomeno di cui si sa tutto”. Sono inutili gli appelli di solidarietà degli scrittori, ma bisogna intervenire su un fenomeno di cui si sa tutto: l’appello di Eco era evidentemente alla politica, perché se la solidarietà degli scrittori era inutile, conoscendo l’origine del male, l’unica cosa da fare era (ed è) lavorare per debellarlo. Eco, il professor Eco, semiologo, studioso di comunicazione, aveva compreso qual’era l’unico modo per affrontare il problema criminale. Allo stesso tempo mostrò solidarietà non all’icona antimafia, ma al giovane uomo che si era trovato, per parole divenute marmo, in una vita impossibile. (..). Eco invitava i suoi ragazzi a essere giraffe dal collo più lungo per sopravvivere mangiando le foglie migliori, ma anche per riuscire a vedere più da vicino la bellezza del cielo. Li portava a Torino, in visita al Salone del Libro, facendo da Cicerone; condivideva con loro cene da amici, dando prova che per scambiarsi pensieri non servono salotti, ma teste, magari un sigaro e un bicchiere di scotch. Eco è stato un osservatore attento tutt’altro che silente. I suoi segni più o meno visibili hanno puntellato i cambiamenti dell’Italia, con leggerezza e senza retorica. Nonostante la corporatura, l’idea che sempre avuto di lui era di un uomo che a mala pena sfiorava il suolo. Leggermente sospeso, un po’ giraffa, per l’abitudine a mangiare le foglie più alte, ma soprattutto capace di guardare le cose separandole da sé attraverso una camera d’aria. Il Professor Eco nella sua lunga vita accademica e di scrittore, ha dimostrato di avere il raro dono della comunicazione, una comunicazione sottile ma chiara, silenziosa, fatta sottovoce, ma evidente. Da semiologo conosceva la natura del messaggio, sapeva che serviva un emittente e una persona disposta a riceverlo, un destinatario. Ma soprattutto sapeva che tra emittente e destinatario c’era il mondo.
Roberto Saviano – Eco e l’impegno – L’Espresso – 3 marzo 2016

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