Sono paragoni che sento fare da amici
americani e italiani, spesso seguiti dal punto interrogativo. Donald Trump è un
nuovo Ronald Reagan? O invece è una versione americana di Silvio Berlusconi?
The Donald è un fenomeno sconcertante, ha spiazzato i cosiddetti esperti:
quando lanciò la sua candidatura nell’estate 2015 non lo presero sul serio,
quando cominciò a salire nei sondaggi dissero che sarebbe durato poco. Ora si
cerca di classificarlo, di renderlo un po’ meno stupefacente, con l’aiuto di
paragoni e precedenti storici. Gli americani stessi hanno cominciato a citare
Berlusconi, s’intende quello dell’esordio in politica e dei successi
elettorali. Le differenze con Trump sono molte. In termini di ricchezza, il
magnate newyorchese nella classifica dei miliardari americani è microscopico,
vale un decimo di Michael Bloomberg e in confronto a Bill Gates non esiste
proprio. Come successo economico è discutibile: è stato calcolato che Trump ha
aumentato di poco il patrimonio che ereditò da suo padre. In compenso non c’è
l’ombra di conflitto d’interessi o di strapotere mediatico: Trump non possiede
tv né giornali, i mass media soprattutto all’inizio lo hanno criticato e
perfino sbeffeggiato (ora cominciano a ricredersi). Le differenze con Reagan
sono altrettanto importanti. Reagan era si un uomo di spettacolo (come Trump,
che deve la sua notorietà allo show televisivo The Apprentice) ma fece un vero apprendistato politico. Modesto
come star del cinema, Reagan era stato però il capo del sindacato attori di
Hollywood, un’organizzazione la cui importanza è descritta bene nel recente
film Trumbo. Prima di candidarsi alla nomination repubblicana per la Casa
Bianca, Reagan era stato governatore della California. Non era un outsider
sbucato all’improvviso. E le somiglianze? Trump riprende, con parole sue
adattate al contesto americano, dei concetti che Berlusconi usò ampiamente. Io
sono ricco quindi non dipendo dai finanziamenti altrui, la mia campagna
elettorale me la pago da solo, rispondo a voi elettori e non alle lobby. Io
sono un imprenditore, non un politico, quindi porterò al governo la mia
efficienza, il mio pragmatismo, la mia capacità decisionale da businessman. C‘è
anche l’uso di un linguaggio innovativo, che fa a pezzi le convenzioni e le
cautele del politcally correct, anche se su questo terreno Trump osa spingersi
molto più in là di Berlusconi (il quale, dopotutto, è un moderato e ambiva a
catturare consensi dall’ex elettorato democristiano).(..). Oggi quest’America è attirata verso due
estremi opposti: Trump da una parte, ma anche Bernie Sanders dall’altra. E’ un
ceto medio che si sente sprofondare sempre più in basso, sia nelle condizioni
materiali di vita, sia nel rispetto di cui gode. Tra gli indicatori del declino:
lo sfascio della famiglia. Un numero crescente di elettori di Trump sono maschi
bianchi single che non possono o non vogliono sposarsi perché disoccupati,
poveri, licenziati, precari. Sognano di tornare a vivere un giorno in
un’America che non c’è più; e che di loro sembra non avere bisogno.
Federico Rampini – Donna di Repubblica – 5 marzo 2016 -
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