Intossicato dalla
lettura di poeti e
autori romantici, alla matura età di anni diciassette decisi una sera di unirmi
alla vasta umanità che affoga le proprie pene d’amore nella bottiglia. Mi
convinsi che una compagna di classe, che mi pare si chiamasse Laura – guarda la
coincidenza – mi avesse prima illuso e poi scaricato per un altro (ragazza
saggia, questa Laura). Mi sbronzai a una festina da compagni, ottenendo vari, importanti
effetti. Sfondai una preziosa e fragile seggiolina d’antiquariato sulla quale
mi ero abbattuto con la testa in orbita. Arrivai a casa, non ricordo con quale
mezzo, riuscendo a raggiungere il bagno. Scoprii che non reggevo l’alcol e che,
se non fosse stato per la mano di mio padre che mi sosteneva la fronte, sarei
stato probabilmente risucchiato per sempre dallo sciacquone. La confusione fu
definitiva: sbronzarsi è una cagata pazzesca, per citare l’immortale Fantozzi. No
sono né un proibizionista, né un astemio, anche se bevo pochissimo. Ma il
problema alcol si sarebbe ripresentato più tardi, negli anni americani dei miei
figli fra licei e college, e si ripropone ora che i più grandi fra i miei
nipoti sono adolescenti. Ho il terrore dell’effetto che produce il bere in
eccesso, il binge drinking, dicono
quelli che lo hanno purtroppo inventato e diffuso. Mentre politicanti e genitori
agitano e sono agitati da marijuana e droghe varie, ben pochi avvertono che la
minaccia più incombente, quotidiana, legale e a portata di mano dei nostri
ragazzi è bere alcolici. Mentre scrivo, ancora non so se il giudice Brett
Kavanaugh, scelto da Trump per occupare il seggio vacante alla Corte Suprema,
sia stato confermato dal Senato, dopo le accuse di violenze sessuali presentate
da tre donne che lo avevano conosciuto e incontrato mentre era al liceo e poi
all’università. Non sapremo forse mai con certezza se le azioni di cui è
accusato siano davvero avvenute, ma una cosa la sappiamo: la costante che le
avrebbe legate e spiegate non era il sesso, era l’alcol, era la perdita di ogni
controllo e inibizione. La sua vita futura, di uomo, di magistrato, di padre,
sarà per sempre segnata dalla rivelazione della sua giovinezza marinata nella birra
che lui beveva a “Keg”, a barilotti, stile Animal
House. Non faccio mai sermoni, né traggo morali, nello spazio di questa
rubrica e non annoierò ulteriormente chi legge con statistiche e cifre. Cerco
di raccontare non di predicare. Ma ho trascorso alcune ore in una notte di
sabato nel pronto soccorso di un grande ospedale del New Jersey, per far
compagnia a un nipote e a suo padre che aspettavano il medico per riparare la
bocca del piccolino ferita dalla gomitata presa in una mischia sotto canestro.
In ore di attesa, ho assistito a una passerella horror di uomini e donne di ogni
razza e stazza, ma soprattutto di giovani, ridoti a zombie barcollanti, semincoscienti,
vomitanti, piangenti, mentre le ambulanze scaricavano in continuazione, sulle
barelle spinte dai paramedici, feriti strappati ai rottami di incidenti
provocati, nove volte su dieci, da guidatori che neppure si rendevano conto di
essere sotto l’effetto dell’alcol, come mi disse il poliziotto di servizio.
Vorrei soltanto che qualche adolescente e qualche genitore potessero
trascorrere quattro ore nel pronto soccorso di un ospedale, nelle notti di
venerdì e sabato, per vedere e per capire che non c’è bisogno di piovre
colombiane, di spacciatori nigeriani, di ‘ndrangheristi italiani per
distruggere la giovinezza e la vita dei nostri figli. Sbronzarsi non è cool, non è figo, non è trasgressivo o
ribaldo: è da idioti che rischiano la a propria e quella degli altri. E non
tutti hanno la fortuna di essere respinti da una Laura a 17 anni e di potersi
vaccinare vedendo il proprio futuro riflesso nella tazza del gabinetto.
Vittorio Zucconi
– Opinioni – Donna di La Repubblica – 13 ottobre 2018 -
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