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giovedì 4 ottobre 2018

Lo Sapevate Che: Quella Sex Machine che amo coccolare...


 “Ci si perde sempre per un motivo”, disse un giorno una mia amica, perforandomi con il suo sguardo acuto e tagliente. Eravamo due adolescenti ingarbugliate e quelle parole, pronunciate con ostentata noncuranza, erano una disamina lucida e implacabile del nostro rapporto che si stava sfilacciando. Raggelata dall’ineluttabilità di quella considerazione, che di fatto sancita la fine di un legame ritenuto imperituro, provai a ribattere che non era vero, che le persone si perdono anche per caso o per sbadataggine. Lei fece no con la testa. E se ne andò. Da allora mi è capitato spesso di allontanarmi da qualcuno: parenti, affetti, amici. Ogni volta, risuonava l’implacabile verdetto di una ragazzina dalla mente tormentata e affilatissima. E mi domando quale sia il motivo di quella improvvisa distanza dove c’era prossimità. È strano. Subiamo un quotidiano bombardamento di parole da cui ci lasciamo attraversare indenni, impermeabili. Ogni tanto, seppur di rado, qualcuno ci trafigge, restando inchiodata per sempre nella nostra coscienza, pronta a riaffiorare al momento opportuno. Certe parole sono semi che germogliamo e mettono radici forti, anche se, quando si insinuano dentro di no, lo ignoriamo. Ho provato a chiudere gli occhi e metterle in fila, per trovare un nesso e per restituire loro un’origine. Mio padre di tanto in tanto sospirava: “Ah! Se avessi vent’anni di meno, Ciccetti!”. Poi mi lanciava uno sguardo ironico come chi, in fondo, sta bene dov’è e della macchina del tempo non ha alcun bisogno. Periodicamente mi domando, oggi che quell’auspicio potrei pronunciarlo io a buon diritto, se, sottraendo quel tempo dalle mie spalle, sarei veramente più felice. Mio nonno era un dottore e un giorno dei miei sei anni dichiarò che, prima o poi, ci saremmo tutti presi i pidocchi. Quando, una sera di aprile, mio figlio di mezzo esclamò “Oh Che strani animalini mi cadono dai capelli” e, qualche minuto dopo, scoprimmo che gli immondi parassiti avevano colonizzato tutte e cinque le nostre teste, ebbi la conferma dell’infallibilità della categoria medica. “Quando non si riescono a risolvere le contraddizioni interne, si portano all’esterno e talvolta si dichiara una guerra”, diceva la mia professoressa di Storia e filosofia e ho imparato che questo vale per i capi di stato e anche per tutti noi. “La mente non è un vaso da riempire, ma un fuoco da accendere”. Lo disse Plutarco, ma è stata l’insegnante di Greco di mio figlio a citarlo, in una riunione di classe: ho pensato che il primogenito aveva avuto fortuna nel trovare un’incendiaria.  Stavamo cercando di afferrarci i piedi chini, rigidi e doloranti, su noi stessi e sui nostri materassini. “Da morti stiamo tutti dentro una valigia”, commentò la maestra di yoga. Probabilmente voleva dirci che saremmo ben più flessibili di così se ci lasciassimo andare, ma l’immagine di noi, scalzi e contratti, piegati e stirati in un trolley, continua a regalarmi un brivido ogni volta che mi guardo le estremità. Una sera, dopo una cena di lavoro, trovai sul divano, steso al buio, mio figlio maggiore. Aveva tredici anni e stava guardando una serie tv americana con le risate in sottofondo. Mi son seduta accanto a lui e piano, con la cautela che richiede quell’età irsuta, ho allungato un braccio e gli ho accarezzato i capelli. Siamo stati così, in silenzio, per qualche minuto, a goderci la reciproca compagnia. “Anche le sex machine come me hanno bisogno ogni tanto di una mamma che le coccoli” ha mormorato lui, senza distogliere lo sguardo dallo schermo. Ho ritratto la mano d’istinto, in un moto di sbigottito sconcerto. Ma la sex machine si è conficcata nel mio cuore.
Claudia de Lillo – Opinioni – Donna di Repubblica – 29 settembre 2018 -

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