“La macchina della verità” ci dice che nei sondaggi perlopiù
mentiamo, mentre nelle ricerche sul web perlopiù diciamo la verità. “La
macchina della verità” ci dice che “la notte della prima elezoe di Obama,
quando la maggior parte dei commenti si è concentrata sulle lodi al neopresidente
circa una su cento delle ricerche su Google che conteneva la parola “Obama”
comprendeva anche “Kkk” (Ku Klux Klan) o “negro””. Una su cento! “La macchina della verità” è un libro di Seth Stephens Davidowitz edito da Luiss:
leggere serve. Serve anche per capire come tra realtà percepita e realtà reale
spesso ci sia qualcosa che sfugge, qualcosa che ha a che fare da vicino con lo
Stato di Diritto e con il suo – scusate il gioco di parole – stato di salute.
Lo Stato di Diritto in Italia è un malato grave perché riceve picconate
continue, da chiunque e da molti anni, ma non intense quanto quelle sferrate
negli ultimi mesi. Picconate che possono manifestarsi anche sotto forma di
gesti inconsapevoli e impercettibili degli occhi (poche parole colpiscono la nostra
attenzione) e delle dita (metto un like, condivido, quando ho più tempo scrivo
un commento). Tra ministri che bollano la cultura come polverosa (e che in
maniera conseguente azzerano i fondi da destinarle) e altri che attaccano la
stampa augurandosi la chiusura di quotidiani e settimanali, c’è la prateria del
web che rappresenta il luogo dove è possibile capire realmente cosa pensano le
persone, ma è anche e soprattutto quel luogo dove è possibile dire, affermare,
scrivere di tutto senza che passi sotto una verifica che considero preziosa,
quella del fact checking. Un fact checking che non potendo essere preventivo
dovrebbe almeno avvenire in tempo più o meno reale. Non sto parlando di
censura, né di monitorare ogni singolo account o post – sarebbe una proposta
idiota oltre che irrealizzabile. ma di costruire un team di persone idonee a
valutare la liceità dei contenuti di account che hanno un numero significativo
di contatti. È evidente come non possa più essere un algoritmo a sospendere chi
posta foto del Duce, magari criticandone e non esaltandone le gesta infami, o a
bloccare chi vuole sponsorizzare l’immagine di un libro che ha in copertina
donne in abiti succinti (giuro che mi è successo, ed era per giunta un
disegno!). È evidente che per meglio valutare la
attendibilità dei contenuti diffusi da chi orienta l’opinione pubblica
(scrittori, giornalisti, politici, calciatori, scienziati, economisti, ecc)
serve un aiuto agli utenti che sono travolti da una mole non gestibile, e
comprensibile, di informazioni e che spesso non hanno le competenze o magari
anche solo il tempo per poterle verificare. E così accade che le ragioni della vittoria di
Trump alle elezioni si possono probabilmente rintracciare in ciò che
Stephens-Davidowitz aveva studiato al tempo della prima elezione di Obama, in
quella “rabbia sgradevole, spaventosa e diffusa, in attesa solo di un candidato
che le desse voce”. E se nel 2008, nei sondaggi, gli americani affermavano di
non dare alcuna importanza all’etnia, di non ritenere svantaggiate le persone
appartenenti a minoranze e di non avere verso di loro alcun pregiudizio, otto
anni dopo hanno votato e sostenuto Trump che ha fatto e fa un utilizzo assai
disinvolto dei social media, che è incline a twittare inesattezze e a dare
risalto a notizie false. Come quando ritwittò quella fake news secondo cui la
maggior parte degli omicidi di bianchi americani vede coinvolti de neri. A Trump che diffonde bufale, come a Salvini che dà voce sui social a un condannato per
‘ndrangheta per attaccare chi manifesta a sostegno d Mimmo Lucano e del modello
Riace, non verrà chiesto perché in una realtà complessa, Trump e Salvini
compiono operazioni di semplificazione. Tutto viene ridotto a meme ed è utile
notare come un concetto articolato come quello di unità minima culturale, possa
diventare uno strumento essenziale per raccontare il mondo in due sole mosse:
trovare una foto di impatto e sovrapporle un testo breve. Oggi ciò che non può
diventare un meme non ha alcuna possibilità di colpire la nostra attenzione.
Estremizzo: ciò che non può diventare un meme non lo puoi spiegare e quindi, in
ultima analisi, non esiste.
Roberto Saviano – L’Antitaliano – L’Espresso – 14 Ottobre
2018 –
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