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giovedì 25 ottobre 2018

Lo Sapevate che : Abbiamo bisogno di poeti (e loro di noi)...

Siamo Solo Noi. Venti interrotti di sogni a non finire. Turbini arrancanti in una volta desolata. Nera come la notte. Sono sola, io. Malata di consapevolezza, porto a spasso i miei 26 anni nel mio mondo incerto. Incerto come me, perché il mio mondo sono io. Tanto ego, poco mondo. Vivo isolata tra boschi e libri, scrivendo all’ombra di un faggio. La consapevolezza scandisce i miei giorni e mi ammala di rimpianti e sospiri. Che la felicità sia vera solo se condivisa è assodato; ma con chi condividere Platone in un tale momento storico? La gente ha fame di fake news, non di bellezza. Nessuno si scandalizza per Giuda o per Efialte. Neanche. Neanche un ragazzo che si innamori di Elena. O una ragazza che rabbrividisca pensando a chiare fresche dolci acque. Blu. Come la noia. Come la rassegnazione. Come il Picasso bello veramente. Mi chiedo con emozione se si può ancora credere in un riscatto per scrivere, non solo quando si sta male, ma soprattutto quando si sta bene. Scrivere con gioia. Tornare a ridere di gusto.   Shaana   shaana@hotmail.it



Ho Dovuto Trascrivere in prosa la sua lettera scandita poeticamente anche in termini grafici. Mi spiace. Ma siamo in questo mondo, dove purtroppo non c’è più poesia capace di raccogliere tutti i senza-voce della storia, quelli che di solito non hanno diritto di parola, perché sovrastati dalle parole e dai gesti di quegli uomini da cui dipende il rumore del mondo, troppo spesso scambiato col destino della terra. Lei, nonostante la sua giovane età, è sola. Per giunta affetta da una malattia, la “consapevolezza”, che immagino possa spaventare gran parte di quelli che hanno la sua età che nulla sanno di Platone e non si scandalizzano dei tradimenti: né quello di Giuda che tradì Gesù, né quello del pastore Efialte che tradì gli Spartani di Leonida nella guerra delle Termopili. La sua cultura si alimenta dello spessore emotivo sottostante (e talvolta straripante), degli eventi culturali. E lei si rammarica non perché i suoi coetanei non sanno nulla di Platone, di Giuda ì, di Efialte o della guerra di Troia, ma perché pur avendo queste conoscenze (e la cosa a questo punto è assai più grave) non vi partecipano emotivamente. I ragazzi conoscono la guerra di Troia e non si innamorano di Elena, le ragazze conoscono il Petrarca e non provano alcun brivido di fronte alle chiare e fresche acque. Quello che lei lamenta è la cultura non intercetta più il sentimento dei giovani. O, che è lo stesso: il sentimento dei giovani si è fatto insensibile, opaco e no recettivo e incapace di partecipare a quegli scenari emotivi che certi spaccati culturali sanno dispiegare. La tonalità della sua lettera la avvicina ai poeti che camminano accanto alle situazioni, alle cose, alle persone in punta di piedi, e nel loro intercedere c’è lo stile del viandante che non conosce la sua meta, a differenza di quelli che, sapendo far di conto e solo di conto, delimitano gli spazi, scandiscono i tempi, misurano i percorsi. Per costoro la via è un tracciato con una segnaletica e una direzione, per lei, come per i poeti, è un essere semplicemente per via. Ma lei lamenta che non si sono altri viandanti che la via ha messo in cammino. E avendo rinunciato, come il viandante, alla sua sicurezza e alla sua invulnerabilità (così almeno a me pare), lei sarebbe nella condizione di incontrare qualcuno non per parlargli e tantomeno per indicargli la via, ma per creare nel silenzio quella condizione essenziale perché un ascolto sia possibile. Un ascolto di sé attraverso il silenzio che non è un non saper cosa dire, ma un attendere che le parole ci giungano come un dono. E nel loro confuso articolarsi svelino la gioia e insieme la tragicità della condizione umana, che abita una terra indifferente che non ha occhi per la sorte degli umani, ignorati anche da quel cielo che, inconsapevole, dispensa quotidianamente, ma non per noi, albe e tramonti. Forse anche i suoi coetanei, anche senza “consapevolezza”, quindi inconsapevolmente, hanno avvertito la tragicità della condizione umana e perciò si sono tuffati nel rumore del mondo, non per trovare un senso, ma per anestetizzarsi dalla consapevolezza che un senso non c’è. Per questo io le consiglierei di rinunciare talvolta alla sua “solitudine tra boschi e libri”, al suo “tanto ego e poco mondo”, perché anche il mondo interiore si spegne se il mondo esterno non gli manda un qualche riflesso. Nel mondo ci sono anche i suoi coetanei privi di consapevolezza, ma non del tutto inconsapevoli della sofferenza che la vita riserva a ognuno. Forse, incontrandoli e parlando con loro, lei può trovare la via “per scrivere non solo quando si sta male, ma soprattutto quando si sta bene. E tornare a ridere di gusto”.
umbertogalimberti@repubblica.it – Donna di La Repubblica – 6 ottobre 2018 -

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