Esiste una sindrome che affligge alcuni di noi. È sottile
e infida come una dipendenza. Regala pienezza e appagamento, come una pozione
magica, un piatto prelibato o un buon vino. Toglie il fiato ma anche i pensieri.
Ci consuma ma nel frattempo ci regala brividi e illusioni. Dilaga occupa ogni
spazio dentro e fuori di noi oscurando la visuale sui vuoti e sui languori. E’
la sindrome dell’indispensabilità ed è pericolosissima anche se, quando ne
siamo in balia, ci pare l’unica normalità possibile. Colpisce chiunque sia investito
da una dose-grande, media, piccola o omeopatica non importa - di potere. Si insinua subdola nello sguardo
di un manager, di un impiegato delle poste, del custode di un condominio. Si
accomoda nei gesti di un medico, di un vigile urbano, di un insegnante. Si
introduce nelle parole di una casalinga, di un avvocato, di un capocantiere. La
sindrome dell’indispensabilità non risparmia nessuno ma si accanisca
soprattutto contro le madri, creature cariche di responsabilità multiple, di
ruoli variegati spesso tra loro incompatibili e vessate da richieste
continuate, rese tollerabili solo attraverso un patologico processo di
sublimazione. Combatto la mia battaglia da quindici anni con alterni successi.
Oltre a badare, come tutti, a me stessa, al mio lavoro, al mio decoro, alle mie
paturnie, alle mie luci e alle mie ombre, mi occupo di un ménage familiare
articolato e caotico. Accolgo, nutro, vedo, provvedo, rimedio, partecipo alle
riunioni e ai saggi di dine anno, accompagno alle feste, a nuoto, a calcio, a
lezione di greco, incastro appuntamenti, compro cibo e vestiti. Parlo, spiego,
sgrido, educo e soprattutto rispondo. Perché la maternità richiede in primis
risposte, pronte, rapide, efficaci, definitive. E trovare risposte a ogni
possibile richiesta (“Qual è l’area del cerchio?”, “Mi aiuti?”, “Mi prepari da mangiare?”,
“Perché le ragazze sono così strane?”, “Mi abbracci?”, “Mi fai passare il mal
di pancia?”, “Mi dai dieci euro?” è un lavoro a tempo pieno. Ed è proprio lì,
nell’assenza di tregua, che la sindrome dell’indispensabilità trova il terreno
più fertile e spiega la sua potenza ipertrofica. Perché il quotidiano profluvio
di domande, bisogni, urgenze, unito alla nostra coazione a rispondere, ci
convince a un certo punto che siamo a tenere insieme il mondo. Ci coglie la
delirante illusione che senza la nostra voce, senza il nostro arrabattarci
senza sosta nel tappare ogni falla, il caos dilagherebbe e le conseguenze
sarebbero disastrose. È tutto falso ma nessuno ce lo dice. L’altro giorno ero a
casa con i miei figli. Il grande parlava su Skype con un amore oltreoceano, il
medio leggeva il calciomercato, il piccolo sfidava un nemico cinese in un
videogioco sparatutto. E per u sacco tempo nessuno aveva bisogno di alcunché.
Sono stata percorsa da un brivido: sorpresa? Horror vacui? Felicità? Smarrimento? Forse solo lucida
consapevolezza non sarò indispensabile per sempre. In quell’insolito silenzio
ho capito che devo cominciare a riempire i miei vuoti prima che la loro assenza
li trasformi in buchi neri. Devo imparare a coltivare il mio giardino prima di
ritrovarlo spoglio, magari cominciando proprio da quegli spazi bianchi, sempre
più ampi, tra una domanda e l’altra. Sarò capace di ritrovarmi senza nessuno che
mi cerchi? Di darmi un senza nessuno che me lo domandi? Di restare dritta senza
nessuno che si appoggi a me? È una sfida alta e complessa che richiede lucidità
e coraggio. Comincerò dalle domande che non ho fatto a me stessa in questi
anni, troppo occupata a rispondere a quelle altrui. Ritroverò i miei confini
finiti e forse scoprirò il valore dell’irresponsabilità.
Claudia de Lillo – Opinioni – Donna di La Repubblica – 16 giugno
2018 -
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