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martedì 3 luglio 2018

Lo Sapevate Che: Tornare a coltivare il proprio giardino...


Esiste una sindrome che affligge alcuni di noi. È sottile e infida come una dipendenza. Regala pienezza e appagamento, come una pozione magica, un piatto prelibato o un buon vino. Toglie il fiato ma anche i pensieri. Ci consuma ma nel frattempo ci regala brividi e illusioni. Dilaga occupa ogni spazio dentro e fuori di noi oscurando la visuale sui vuoti e sui languori. E’ la sindrome dell’indispensabilità ed è pericolosissima anche se, quando ne siamo in balia, ci pare l’unica normalità possibile. Colpisce chiunque sia investito da una dose-grande, media, piccola o omeopatica non importa -  di potere. Si insinua subdola nello sguardo di un manager, di un impiegato delle poste, del custode di un condominio. Si accomoda nei gesti di un medico, di un vigile urbano, di un insegnante. Si introduce nelle parole di una casalinga, di un avvocato, di un capocantiere. La sindrome dell’indispensabilità non risparmia nessuno ma si accanisca soprattutto contro le madri, creature cariche di responsabilità multiple, di ruoli variegati spesso tra loro incompatibili e vessate da richieste continuate, rese tollerabili solo attraverso un patologico processo di sublimazione. Combatto la mia battaglia da quindici anni con alterni successi. Oltre a badare, come tutti, a me stessa, al mio lavoro, al mio decoro, alle mie paturnie, alle mie luci e alle mie ombre, mi occupo di un ménage familiare articolato e caotico. Accolgo, nutro, vedo, provvedo, rimedio, partecipo alle riunioni e ai saggi di dine anno, accompagno alle feste, a nuoto, a calcio, a lezione di greco, incastro appuntamenti, compro cibo e vestiti. Parlo, spiego, sgrido, educo e soprattutto rispondo. Perché la maternità richiede in primis risposte, pronte, rapide, efficaci, definitive. E trovare risposte a ogni possibile richiesta (“Qual è l’area del cerchio?”, “Mi aiuti?”, “Mi prepari da mangiare?”, “Perché le ragazze sono così strane?”, “Mi abbracci?”, “Mi fai passare il mal di pancia?”, “Mi dai dieci euro?” è un lavoro a tempo pieno. Ed è proprio lì, nell’assenza di tregua, che la sindrome dell’indispensabilità trova il terreno più fertile e spiega la sua potenza ipertrofica. Perché il quotidiano profluvio di domande, bisogni, urgenze, unito alla nostra coazione a rispondere, ci convince a un certo punto che siamo a tenere insieme il mondo. Ci coglie la delirante illusione che senza la nostra voce, senza il nostro arrabattarci senza sosta nel tappare ogni falla, il caos dilagherebbe e le conseguenze sarebbero disastrose. È tutto falso ma nessuno ce lo dice. L’altro giorno ero a casa con i miei figli. Il grande parlava su Skype con un amore oltreoceano, il medio leggeva il calciomercato, il piccolo sfidava un nemico cinese in un videogioco sparatutto. E per u sacco tempo nessuno aveva bisogno di alcunché. Sono stata percorsa da un brivido: sorpresa? Horror vacui? Felicità? Smarrimento? Forse solo lucida consapevolezza non sarò indispensabile per sempre. In quell’insolito silenzio ho capito che devo cominciare a riempire i miei vuoti prima che la loro assenza li trasformi in buchi neri. Devo imparare a coltivare il mio giardino prima di ritrovarlo spoglio, magari cominciando proprio da quegli spazi bianchi, sempre più ampi, tra una domanda e l’altra. Sarò capace di ritrovarmi senza nessuno che mi cerchi? Di darmi un senza nessuno che me lo domandi? Di restare dritta senza nessuno che si appoggi a me? È una sfida alta e complessa che richiede lucidità e coraggio. Comincerò dalle domande che non ho fatto a me stessa in questi anni, troppo occupata a rispondere a quelle altrui. Ritroverò i miei confini finiti e forse scoprirò il valore dell’irresponsabilità.
Claudia de Lillo – Opinioni – Donna di La Repubblica – 16 giugno 2018 -

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