All’Incrocio Dei Vicoli romani dove aspetto il taxi con la faccia immersa nel solito
schermetto del telefonino, un chiasso di ragazzini mi scuote dalla noia
dell’attesa, lanciandosi bordate di “’a coso”, “’a cosa”, “ma ‘ndo vai” e
qualche insulto sanguinosamente infantile che il romanesco riesce a rendere
tollerabile. Scrollo gli occhi dallo schermo del telefonino e li guardo, perché
so chi sono quei ragazzini e so dove
vanno: salgono sulla stradina ripida che li porta allo stesso istituto di suore
che il più piccolo dei miei figli, Guido, frequentò quasi quarant’anni or sono,
quando vivevano a Roma. E uno di loro meraviglia delle coincidenze che scuotono
la memoria, si chiama proprio Guido, anzi, “‘a Guidoooo”. Ma questo Guido è
molto diverso dal mio. E’ un bambino nerissimo di carnagione, gli occhi bianchi
che roteano al cielo spazientiti per il comportamento dei compagni più lenti.
Neanche loro somigliano neppure lontanamente a mio figlio, per colorito e per il
romanesco che snocciolano. Sono quasi tutti di sangue africano, con qualche
eccezione di sangue asiatico (mi azzardo a pensare Filippino o cingalese) e
pochissimi di pelle chiara, una minoranza, tutti nelle loro semplici uniformi
imposte ancora dalle suore. Sono i nuovi romani, non so con quali passaporti,
certificati, permessi, pezzi di carta identitaria, adozioni, che riempiono i
vicoli stretti dell’antica Suburra. Con l’eco delle loro voci come generazioni
prima di loro, parlando il dialetto delle strade nelle quali sono cresciuti
meglio dei recenti abitanti del quartiere, ormai da anni “de-romanizzato” e
popolato da stranieri più stranieri di loro, anche se con la pelle rosea, i
capelli biondo-castani, i passaporti italiani o europei. Roma è la loro città,
più “oro” di quanto sia mia che pure vi possiedo un appartamento da quarant’anni
e pago tasse al Comune; e si capisce da come si muovono, con la sfrontata
padronanza dei ragazzini, che la sentono loro. Che sanno di essere a casa.
Bambini africani e asiatici che in queste stradine aggrappate ai vecchi Fori e
ai Mercati sono di casa da millenni. Quando i loro lontanissimi antenati
siriani, egizi, numidi, daci greci, bianchi e non bianchi brulicavano in
cantieri, templi e botteghe da schiavi, liberti, costruttori, tagliapietre,
usurai, mercanti, viaggiatori, ladri, soldati. Sono più straniero io, italiano
che ancora porta l’ignominia della dizione “Razza ariana” sul certificato di
nascita emesso sotto l’egida della Repubblica di Salò nel 1944, all’incrocio di
quei vicoli romani aspettando il taxi. Eppure dovrei essere io ad aver paura di
loro, come se fossero loro i saccheggiatori della mia ricchezza, quando ogni
pietra, ogni capitello, ogni obelisco di questa Roma racconta la storia dei
saccheggi che i miei antenati compirono sui loro, succhiando ricchezze e
spoglie per gonfiare la città di gloria, a cominciare da quel Colosseo che si
intravede alla fine del vicolo, eretto con le ricchezze di Gerusalemme e dei
Giudei soggiogate con violenza dalle legioni imperiali. I nuovi romani mi
guardano male, strano signore bianco di pelle e di pelo, intento a fissarli
mentre giocano e si scambiano l’ultimo e più sicuro degli attestati di
romanità, “’a laziale der ca…”, “’a romanista de mme…”. E hanno ragione di aver
timore, perché loro guardano in me il passato e io in loro il futuro. “Guido,
ti chiami Guido? Come mio figlio che andava alla tua stessa scuola, sai?”, “Ah,
e amme chemme frega?!”. “Da dove vieni?”. “Da casa mia”, e corre via, ridendo
coi compagni a una domanda così cretina. Sono io che vengo da lontano. Lui, il
romanino nero, è a casa sua.
Vittorio Zucconi – Opinioni – Donna di La Repubblica – 30 giugno
2018 -
Nessun commento:
Posta un commento