Non Avevo Mai usato la parola “felicità” per la non corrispondenza a un’esperienza
sensoriale. Curioso, ho avviato un’inchiesta su Facebook, e alla fine della
ricerca, che ha visto una nutrita partecipazione, ne ho tratto una definizione
“dinamica” e non “statica”, come capita di leggere nei vocabolari che elencano
qualità come: abbondanza, soddisfazione e non mi fanno entrare nell’esperienza
sensoriale della parola. La “nostra” definizione è: “Un’onda di grande energia
vitale che t’invade e attraversa, se ne va, lasciandoti però in bocca il suo
bel sapore che ti aiuta a re-incamminarti e attraversare le difficoltà a
venire, con più fiducia e speranza nella vita”.
Apprezzo Lo Sforzo della sua ricerca che l’ha fatta
approdare a una definizione “dinamica “di felicità, ma forse quello che lei
trascura è che non si dà una definizione unica e univoca, per la semplice
ragione che il concetto di felicità dipende dalla cultura che la definisce. Ad
esempio per i Greci antichi la felicità (eu-daimonia)
consisteva nella buona (eu-)
realizzazione del proprio demone, come i regi chiamavano la propria
inclinazione, la propria tendenza naturale, in termini religiosi, la propria
vocazione o, come dicono i giapponesi, “la lettera dell’Imperatore” inviata a
ciascuno di noi. Ma i Greci avvertivano anche che nella realizzazione della tua
inclinazione dovevi conservare la “giusta misura” perché se la oltrepassavi,
preparavi la tua rovina. Motivo questo ripreso anche da Nietzsche, secondo il
quale la felicità non dipende tanto dal piacere, dall’amore, dalla ricchezza,
dalla considerazione p dall’ammirazione altrui, quanto dalla piena
realizzazione di sé, da lui sintetizzata nell’espressione: “Diventa ciò che sei”.
Motivo questo ripreso poi da Jung e da lui riformiamo nel “processo d’individuazione”
indicato come vera meta da raggiungere nel percorso analitico. La cultura
cristiana colloca la felicità in quell’ideale etico che, non soddisfatto dei
beni e dei piaceri transeunti nel mondo dove nulla è durevole, aspira a una felicità
indefettibile ed eterna in un altro mondo che si raggiunge con la pratica
ascetica della rinuncia all’amore del mondo. Scrive in proposito Agostino: “Due
sono gli amori: quello del mondo e quello di Dio”. Se abita in noi l’amore del
mondo non è possibile che entri anche l’amore di Dio. Si allontani l’amore del
mondo e abiti in noi l’amore di Dio”.
Interessante è poi il gioco che i rinascimentali, immaginando la città
ideale in una dimensione utopica, collocano in questa dimensione la felicità,
ma con la riserva nascosta nella parola u-topia
evidenziata, nel suo libro L’infelicità,
da Armando Torno, secondo il quale la u
può essere letta come contrazione di eu
e allora utopia è il luogo che non c’è, oppure come contrazione di eu prefisso greco che, come abbiamo
visto, ha attinenza con la felicità. Giovando con queste due letture, Armando
Torno conclude che “utopia” è un luogo che non esiste e per questo è felice;
oppure luoghi felici sono soltanto quelli che non esistono. Ma forse la
felicità risiede, come ipotizza Freud, in quel “sentimento oceanico” che
ciascuno di noi ha sperimentato in quella condizione prenatale nel ventre della
madre, da cui un giorno fuoriuscimmo per nascere come individui separati.
Questa primitiva felicità può essere recuperata per brevi istanti come, scrive Freud:
“al culmine dell’innamoramento, dove il confine tra l’Io e l’oggetto minaccia
di dissolversi. Contro ogni attestato dei sensi, l’innamorato afferma che Io e
Tu sono una cosa sola ed è pronto a comportarsi come se davvero fosse così”. Ma
oggi siamo nell’età della tecnica e ciascuno di noi è divenuto un funzionario
dell’apparato, quale può essere la catena di montaggio, lo studio di un notaio,
il sistema scolastico, la cura ospedaliera, l’ordine burocratico, e in generale
dove ognuno di noi esercita la sua funzione, non in vista della propria autorealizzazione,
ma in vista del raggiungimento degli obiettivi dell’apparato, e per giunta con
la massima efficienza e produttività come esige la razionalità della tecnica.
Così diventiamo tutti poco individuati e tendenzialmente uniformi e conformi. E
perciò, come scrive Nietzsche, non sappiamo più “Cos’è amore? E creazione? E
anelito? E stella?” perché, al pari degli ultimi uomini, aneliamo a “una
vogliuzza per il giorno e una vogliuzza per la notte, salvo restando la salute.
“Noi abbiamo inventato la felicità” – dicono gli ultimi uomini e strizzano l’occhio.
(…) Nessun pastore e un solo gregge! Tutti vogliono le stesse cose, tutti sono
uguali: chi sente diversamente va da sé al manicomio”.
umbertogalimberti@repubblica.it
– Donna di La Repubblica -7 luglio 2018 -
Nessun commento:
Posta un commento