Una capra, una
tartaruga, un gatto, un impermeabile, tre cappotti, filo di rame, 47 bottoni,
tre cinture di cuoio, sei galline e un gallo, una borsa con tre scellini, un
orologio da polso, un cocker spaniel, dodici chili di grasso di balena, tazze
di carta e un cuculo. Non è l’inventario di uno strano emporio, ma l’elenco
delle cose trovate da persone e ricercatori nello stomaco di squali. Si trova
nel saggio Il libro degli squali,
scritto dai biologi marini Thomas Lineweaver e Richard Backus negli anni
Settanta, e da allora ristampato e aggiornato varie volte. L’ultima edizione
italiana è adesso nelle librerie (Odoya, pp 272). Un’uscita tempestiva, dati
gli avvistamenti davanti alle nostre spiagge dei mesi scorsi: Sono stati
segnalati un mako (Isurus oxyrinchus), una verdesca (Prionaceglauca) a Ostia e altre tre a
San Foca, nel Salento. Questo libro aiuta a conoscere meglio questi
straordinari animali, e anche magari a ridimensionare la paura che incutono. Si
conoscono oltre cinquecento specie di squali, che variano come dimensioni dai
15 centimetri dello squalo pigmeo ai 18 metri dello squalo balena. Quelli
veramente pericolosi per no sono però solo una decina, a partire dal grande
squalo bianco (Carcharodon carchariasi),
che raggiunge i sette metri. Tutti insieme, secondo il sito www.sharkattackdata.com, dal 1900 al
2016 hanno fatto meno di mille morti accertati, 259 dei quali in Australia. “Nel
Mediterraneo, dove vivono una cinquantina di specie, gli attacchi sono
rarissimi, con 0,4 vittime l’anno in media. Nei mari italiani le specie
presenti sono una quarantina, ma alcune (come lo squalo bianco e il toro Carcharias taurus) sono ormai molto rare,
e altre, come la verdesca e lo spinarolo (Squalus
acanthias) in netto calo. Da noi, insomma, sono più pericolosi i cani, dei
pescecani…” scherza la biologa marina Sara Bonanomi, dell’Istituto di scienze
marine del Cnr, tra gli autori di Chondrichthyes,
un libro scientifico su squali e razze uscito a inizio anno (IntechOpen,
pp130). È vero che gli squali, con le loro file di denti seghettati, che in
alcune specie cambiano inclinazione durante il morso, per sbranare meglio,
sembrano progettati apposta per far paura, ma a guardarli in modo meno emotivo
si rivelano affascinanti per il gran numero dei loro ingegnosi adattamenti
evolutivi, come la pelle dura sopra lo scheletro morbido. “La loro pelle è
coperta di dentini ossei, la cui funzione, imitata oggi in certi costumi da
bagno agonistici, è di far scivolare meglio gli squali nell’acqua” spiega
Bonanomi. “Al contrario, lo scheletro non è di osso, ma di cartilagine”. Probabilmente,
come ha spiegato nel 2015 il biologo australiano John Long, si è evoluto nel
tempo per rendere questi animali sempre più veloci e agili. “E’ poi noto che
non hanno vescica natatoria, l’organo pieno d’aria che permette ai pesci ossei
di non affondare e quindi devono nuotare continuamente, usando le pinne come
ali. Sopperiscono in parte con un enorme fegato ricco di grassi, che da un lato
li alleggerisce e dall’altro consente loro di digiunare per lunghi periodi”. La
caratteristica più sorprendente che accomuna tutti gli squali è però la
riproduzione, nonostante siano apparsi 200 milioni di anni prima dei mammiferi,
si accoppano, e talvolta partoriscono come loro. “Mentre i pesci ossei
fecondano le uova esternamente, lo squalo maschio ha due peni, che usa per
inseminare la femmina. Nelle specie vivipare di squalo per esempio il tigre (Gleocerdo cuvieri), l’uovo fecondato si
schiude nella femmina e lo squaletto viene nutrito con una secrezione speciale,
altre uova o addirittura altri embrioni, per un periodo che, nello spinarolo,
arriva a 22 mesi. La prole che nasce già ben sviluppata, è quindi meno a
rischio di predazione, ma molto meno numerosa di quella degli altri pesci.
Questo la rende particolarmente sensibile agli stermini prodotti dagli umani.
Insomma, più che essere loro una minaccia per noi, insiste la biologa marina,
siamo noi una minaccia pe loro. “La presenza nel Mediterraneo di grandi squali,
come i mako, bianco, volpe e smeriglio (Lamna
nasus) in un secolo è calata di oltre il 90 per cento, a causa soprattutto
delle catture accidentali durante la pesca, come ha documentato una nostra
recente ricerca condotta nell’Adriatico con il Ministero dell’Agricoltura e
apparsa su PlosOne” dice Bonanomi. “La
pesca, soprattutto a strascico, colpisce specie come il palombo (Mustelus mustelus), a rischio
estinzione, e lo squalo angelo (Squatina
squatina) ancora più raro, e si stima che faccia perdere ogni anno al
Mediterraneo settemila tonnellate di squali, specie indispensabili alla salute
degli ecosistemi”. Il nostro rischio di essere aggrediti invece sembra quasi
nullo: dieci vittime accertate in cento anni, e l’ultima di queste, un sub in
Sardegna nel 2016, in realtà potrebbe essere stato morso da uno squalo quando
era già morto. “Di esemplari grandi, del resto, ne sono rimasti pochissimi, e
si cibano i pesci, non come in Sudafrica e Australia, di leoni marini e foche,
prede dalla silhouette più simile a quella di un umano che nuota o fa surf”. Ma
se alla fine incontrassimo davvero uno squalo? “Sono attratti dai campi elettrici,
come quelli di un cuore che batte veloce, e dall’odore dell’urina: per cui
niente panico, cercate di allontanarvi lentamente. Se poi lo squalo diventasse
troppo curioso, colpirlo sul muso o sugli occhi in genere basta ad allontanarlo”.
Alex Saragosa – Scienze – Il Venerdì di
La Repubblica - 6 luglio 2018 -
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