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mercoledì 11 luglio 2018

Lo Sapevate Che: Paura, eh? Eppure i veri squali siamo noi....


Una capra, una tartaruga, un gatto, un impermeabile, tre cappotti, filo di rame, 47 bottoni, tre cinture di cuoio, sei galline e un gallo, una borsa con tre scellini, un orologio da polso, un cocker spaniel, dodici chili di grasso di balena, tazze di carta e un cuculo. Non è l’inventario di uno strano emporio, ma l’elenco delle cose trovate da persone e ricercatori nello stomaco di squali. Si trova nel saggio Il libro degli squali, scritto dai biologi marini Thomas Lineweaver e Richard Backus negli anni Settanta, e da allora ristampato e aggiornato varie volte. L’ultima edizione italiana è adesso nelle librerie (Odoya, pp 272). Un’uscita tempestiva, dati gli avvistamenti davanti alle nostre spiagge dei mesi scorsi: Sono stati segnalati un mako (Isurus oxyrinchus), una verdesca (Prionaceglauca) a Ostia e altre tre a San Foca, nel Salento. Questo libro aiuta a conoscere meglio questi straordinari animali, e anche magari a ridimensionare la paura che incutono. Si conoscono oltre cinquecento specie di squali, che variano come dimensioni dai 15 centimetri dello squalo pigmeo ai 18 metri dello squalo balena. Quelli veramente pericolosi per no sono però solo una decina, a partire dal grande squalo bianco (Carcharodon carchariasi), che raggiunge i sette metri. Tutti insieme, secondo il sito www.sharkattackdata.com, dal 1900 al 2016 hanno fatto meno di mille morti accertati, 259 dei quali in Australia. “Nel Mediterraneo, dove vivono una cinquantina di specie, gli attacchi sono rarissimi, con 0,4 vittime l’anno in media. Nei mari italiani le specie presenti sono una quarantina, ma alcune (come lo squalo bianco e il toro Carcharias taurus) sono ormai molto rare, e altre, come la verdesca e lo spinarolo (Squalus acanthias) in netto calo. Da noi, insomma, sono più pericolosi i cani, dei pescecani…” scherza la biologa marina Sara Bonanomi, dell’Istituto di scienze marine del Cnr, tra gli autori di Chondrichthyes, un libro scientifico su squali e razze uscito a inizio anno (IntechOpen, pp130). È vero che gli squali, con le loro file di denti seghettati, che in alcune specie cambiano inclinazione durante il morso, per sbranare meglio, sembrano progettati apposta per far paura, ma a guardarli in modo meno emotivo si rivelano affascinanti per il gran numero dei loro ingegnosi adattamenti evolutivi, come la pelle dura sopra lo scheletro morbido. “La loro pelle è coperta di dentini ossei, la cui funzione, imitata oggi in certi costumi da bagno agonistici, è di far scivolare meglio gli squali nell’acqua” spiega Bonanomi. “Al contrario, lo scheletro non è di osso, ma di cartilagine”. Probabilmente, come ha spiegato nel 2015 il biologo australiano John Long, si è evoluto nel tempo per rendere questi animali sempre più veloci e agili. “E’ poi noto che non hanno vescica natatoria, l’organo pieno d’aria che permette ai pesci ossei di non affondare e quindi devono nuotare continuamente, usando le pinne come ali. Sopperiscono in parte con un enorme fegato ricco di grassi, che da un lato li alleggerisce e dall’altro consente loro di digiunare per lunghi periodi”. La caratteristica più sorprendente che accomuna tutti gli squali è però la riproduzione, nonostante siano apparsi 200 milioni di anni prima dei mammiferi, si accoppano, e talvolta partoriscono come loro. “Mentre i pesci ossei fecondano le uova esternamente, lo squalo maschio ha due peni, che usa per inseminare la femmina. Nelle specie vivipare di squalo per esempio il tigre (Gleocerdo cuvieri), l’uovo fecondato si schiude nella femmina e lo squaletto viene nutrito con una secrezione speciale, altre uova o addirittura altri embrioni, per un periodo che, nello spinarolo, arriva a 22 mesi. La prole che nasce già ben sviluppata, è quindi meno a rischio di predazione, ma molto meno numerosa di quella degli altri pesci. Questo la rende particolarmente sensibile agli stermini prodotti dagli umani. Insomma, più che essere loro una minaccia per noi, insiste la biologa marina, siamo noi una minaccia pe loro. “La presenza nel Mediterraneo di grandi squali, come i mako, bianco, volpe e smeriglio (Lamna nasus) in un secolo è calata di oltre il 90 per cento, a causa soprattutto delle catture accidentali durante la pesca, come ha documentato una nostra recente ricerca condotta nell’Adriatico con il Ministero dell’Agricoltura e apparsa su PlosOne” dice Bonanomi. “La pesca, soprattutto a strascico, colpisce specie come il palombo (Mustelus mustelus), a rischio estinzione, e lo squalo angelo (Squatina squatina) ancora più raro, e si stima che faccia perdere ogni anno al Mediterraneo settemila tonnellate di squali, specie indispensabili alla salute degli ecosistemi”. Il nostro rischio di essere aggrediti invece sembra quasi nullo: dieci vittime accertate in cento anni, e l’ultima di queste, un sub in Sardegna nel 2016, in realtà potrebbe essere stato morso da uno squalo quando era già morto. “Di esemplari grandi, del resto, ne sono rimasti pochissimi, e si cibano i pesci, non come in Sudafrica e Australia, di leoni marini e foche, prede dalla silhouette più simile a quella di un umano che nuota o fa surf”. Ma se alla fine incontrassimo davvero uno squalo? “Sono attratti dai campi elettrici, come quelli di un cuore che batte veloce, e dall’odore dell’urina: per cui niente panico, cercate di allontanarvi lentamente. Se poi lo squalo diventasse troppo curioso, colpirlo sul muso o sugli occhi in genere basta ad allontanarlo”.
Alex Saragosa – Scienze – Il Venerdì di La Repubblica - 6 luglio 2018 -

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