“Che poi noi alla fine ci siamo salvati
grazie all’ora legale. Fosse successo ieri, saremmo stati dentro le chiese a
fare i sopraluoghi e ci sarebbe venuto tutto addosso” mi dice un vigile del
fuoco tra una scossa e l’altra. Sono le 13 circa davanti alla Porta principale
d’accesso al centro storico di Norcia. e cinque ore fa, l’ennesima scossa più
forte di tutte le precedenti degli ultimi giorni, ma anche degli ultimi
trent’anni, ha fatto venire giù tanto, se non tutto. Il vigile era già a
Norcia, perché il terremoto ci era già arrivato tre giorni prima , ma anche e
soprattutto due mesi prima. E se l’aneddoto conferma quanto la vita sia sempre
molto anche questione di culo, il vigile del fuoco lavora e rischia per evitare
che sia sempre e solo la sorte a decidere il destino delle cose, città, animali
e persone, vigili del fuoco esclusi. Anche obbligarmi a trovare un caschetto
per entrare a vedere la zona rossa fa parte del suo lavoro. Qui a Norcia alla sorte
credono in pochi. Territorio strutturalmente sismico e spiritualmente a prova
di cataclisma fin da quando nacque San Benedetto, i nursini che incontro
sembrano quasi più sconvolti dallo stupore altrui e dall’improvvisa, stavolta
inevitabile ribalta mediatica, che dal dramma dei crolli alleggerito solo dalla
consapevolezza di aver superato indenni la scossa delle scosse.”Il terremoto
per noi è arrivato il 24 agosto, non domenica mattina”, mi dice Giuseppe,
allevatore di maiali allo stato brado, al quale è crollata la casa il giorno
del terremoto di Amatrice, e che da quel girono vive accampato con mezzi di
fortuna con la sua e altre famiglie. “Il ‘’modello do Norcia’’ è stato
sbandierato per non compromettere il nostro tessuto economico che si basa sul turismo”
mi dice Caterina, studentessa universitaria anche lei in roulotte da due mesi,
che mi porta in giro tra case e capannoni industriali crollati. “Però non si
può nascondere l’evidenza, non si può lasciare una popolazione abbandonata, non
si è stati in grado di organizzare un campo in due mesi per accogliere le
persone. Qui ognuno si è organizzato per i cazzi propri” chiosa Caterina. E lo
ha dovuto fare da due mesi, non da domenica mattina. Chi non ha avuto mezzi e
risorse per farlo,è stato messo su pullman diretti agli hotel del Lago
Trasimeno. Chi resta fa da sé, soprattutto i più giovani, per sé e per gli
altri, al servizio dei pochi rimasti, ostinati a prescindere dai tempi e dalle
priorità dei media e della macchina organizzativa preposta alle emergenze.
Trovo il caschetto, entro con i pompieri e un torpedone di colleghi a vedere la
distribuzione. San Benedetto, rimasto in piedi, sembra ammonire tutti per il
ritardo.
Diego Bianchi – Il Sogno di Zoro – Il Venerdì di Repubblica –
11 Novembre 2016
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