“Ma io come ci torno a casa, cosa gli
dico a mia moglie?”, dice un operaio nel vuoto, verso i suoi colleghi di
disoccupazione dell’Alcoa, alla fine di una giornata passata ad aspettare sotto
Montecitorio notizie migliori di quelle che poi arriveranno. Anche stavolta,
come già altre volte negli ultimi quattro anni (da quando è stata chiusa la
fabbrica), gli operai del Sulcis (in presidio permanente da due anni davanti
alla fabbrica) tornano a casa avviliti. E’ una scena che rattrista, che ho già
visto diverse volte, che si ripete spesso quasi identica. Si manifesta sotto
una rappresentanza delle istituzioni, una delegazione sindacale sale a trattare
con qualcuno dall’esecutivo, e quando si deve riferire il risultato
dell’incontro a chi ne attende l’esito, la tensione sale fino al punto di
mediazione e di rassegnazione, fino alla prossima scadenza promessa. Che questa
volta è datata 7 marzo, giorno auspicato per la chiusura positiva delle
trattative tra governo e Glencore,
multinazionale anglo-svizzera interessata all’acquisizione della fabbrica.
“Dobbiamo tenere duro fino a quel giorno”, scandisce al megafono un sindacalista cercando di
superare il volume di chi contesta l’ennesimo rinvio. “Quel giorno dovremo fare
un ulteriore salto nella lotta, un altro sacrificio, dovremo portare qui le
famiglie”. L’operaio che non sapeva cosa dire alla moglie al suo rientro,
all’improvviso si ritrova la risposta. La famiglia, mai tanto invocata, idealizzata
e strumentalizzata come nelle ultime settimane, da feticcio di propaganda
diventa strumento di lotta politica. Come extrema
ratio di una battaglia da anni senza luce viene presa in considerazione
l’ipotesi di quello che sarebbe, a tutti gli effetti, un vero e proprio “Family
Day del lavoro del Sulcis”. Una grande famiglia di donne, uomini e figli
assortiti ognuno come gli va, in lotta per il diritto civile di riavere il
proprio lavoro. Penso questa cosa mentre guardo la facciata di Montecitorio. In
una giornata intera passata qui sotto, di deputati, senatori e ministri non se
ne è visto uno. In queste stesse ore sono impegnati a discutere su emendamenti
e “canguri” utili a sabotare la sostanza del ddl Cirinnà, con toni, modi,
livori e strumenti che qui, in mezzo a duecento disoccupati alla ricerca di
riferimenti, è bene non si vedano. Gli operai, mestamente, voltano le spalle al
Parlamento per tornare sotto la pioggia al pullman. Da Largo Argentina, Roma,
andranno a Civitavecchia. Da Civitavecchia un traghetto li porterà ad Olbia. Da
Olba, altri pulman li porteranno nel Sulcis. Le distanze con la politica, in
certe giornate, per certe persone, sembrano davvero incolmabili.
Diego Bianchi – Il Sogno di Zoro – Il Venerdì di Repubblica –
27 febbraio 2016 -
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