Rispondendo alla
lavoratrice di un call center che esprimeva il proprio avvilimento per un
lavoro da “scimmia ammaestrata”, tale da farla sentire più simile a una
macchina che a un essere umano, qualche settimana fa lei scriveva: “Nell’età
della tecnica l’uomo deve farsi simile alla macchina, perché la macchina non
prende ferie o malattie, non cade in depressione, non si demotiva, non è
turbata da sentimenti o problemi familiari, non cerca l’autorealizzazione”. Io
penso invece che non è nella tecnica che va individuata la causa delle offese e
degli attacchi che oggi subisce il lavoro, dal momento che la tecnica, se ben
utilizzata, può anzi servire per renderlo più confacente alla dignità umana. La
tecnica diventa pericolosa e lesiva dei diritti, come afferma il pensiero
sociale cristiano, quando la meccanizzazione soppianta l’uomo togliendogli ogni
personale soddisfazione e lo stimolo alla creatività e alla responsabilità.
Quando sottrae l’occupazione o quando, con l’esaltazione della macchina, riduce
l’uomo a servo. Se il lavoro non c’è o diviene umiliante, la colpa non è della
tecnica e dell’economia, che secondo un’opinione diffusa ma priva di
fondamento, detterebbe le sue leggi alla politica. E’ vero il contrario: è
sempre la politica che fa il bello e il cattivo tempo nella vita sociale, anche
quando sembra lasciare campo libero alla tecnica e all’economia, perché
questo laissez-faire è nella sostanza una precisa e deleteria scelta
politica. Michele Di Schiena mariapia.ds@alice.it
(..) l’odierna alienazione che il lavoratore subisce non è da
imputare alla tecnica ma, all’inerzia della politica che non governa né
l’economia né la tecnica. Io, al contrario,
non penso che sia da imputare all’inerzia dei politici il fatto che la
politica non prende decisioni, ma che la politica non decide perché nell’età
della tecnica e dell’economia globalizzata non è più in grado di farlo. (..).
Quando si senti dire che per difenderci dai prodotti cinesi dobbiamo migliorare
la nostra tecnologia investendo nella ricerca, stiamo riconoscendo il primato
della tecnica sull’economia, a sua volta fondato sul primato dell’economia
sulla politica, dal momento che non c’è decisione che possa essere presa a
prescindere dalla sfera del denaro. La politica è stata inventata da Platone
che l’ha definita “tecnica regia” perché, mentre le tecniche sanno “come” si
devono fare le cose, alla politica spetta decidere “se” e “quando” si devono
fare. Oggi, come scrive il filosofo Giacomo Marramao, “la politica appare
come un sovrano spodestato che si aggira
tra le antiche mappe dello Stato e della società, rese inservibili perché più
non rimandano alla legittimazione della sovranità”. (..). Lei dice poi che la
tecnica, se usata bene, può alleggerire la fatica del lavoro. Non lo credo,
perché la tecnica ha come suoi valori l’efficienza e la produttività dai
livelli sempre più elevati, in base al principio della razionalità da essa
adottata che prevede di raggiungere il massimo degli scopi con l’impiego minimo
dei mezzi. Questa forma di razionalità propria della tecnica è ben
rappresentata dagli strumenti di produzione (le macchine) e di organizzazione
(i sistemi) che rispondono a una logica molto rigorosa materializzata nelle
macchine tra loro perfettamente sincronizzate. (..) . La sua ipotesi sui
benefici della tecnica era valida nel tempo in cui l’uomo della tecnica si
serviva, mentre oggi è il sistema delle macchine e delle organizzazioni a
servirsi dell’uomo ridotto a suo funzionario. Questa è un’alienazione più
spaventosa di quella denunciata da Marx, e per giunta non prevede, alcuna
possibilità di rivoluzione. Perché come si fa a opporsi alla razionalità della
tecnica che, attraverso la sua organizzazione perfettamente sincronizzata,
consente di raggiungere il massimo degli scopi con l’impiego minimo dei mezzi,
ivi compreso quel mezzo che si chiama uomo?
umbertogalimberti@repubblica.it
– La Donna di Repubblica - 5 marzo 2016
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