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giovedì 26 dicembre 2013

Lo Sapevate Che: Hannah e le sue lezioni...


Finalmente si potrà vedere in Italia il film sulla filosofia.
Un’intellettuale ne dà una sua lettura personale. Al centro:
la capacità di giudizio

Si potrà finalmente  vedere anche in Italia il film di Margareth Von Trotta “ Hannah Arendt”. Ne parlo perché l’incontro con la studiosa tedesca per me è stato fondamentale. Quando si cercano risposte a eventi che sfuggono  a un’immediata comprensione razionale, è di grande sollievo imbattersi in un pensiero così potente e radicale da aprirti la mente e farti scorgere i tratti di qualcosa che, per quanto impressionante, ha comunque sue ragioni e forma. E’ quanto accadde a me incontrando l’Hannah Arendt de “Le origini del totalitarismo”m mentre ero alla ricerca dei perché degli errori del comunismo, ma consapevole che quelle domande dovevano coinvolgere un fenomeno più ampio e quindi l’esperienza del nazionalsocialismo e la Shoah.
Lo scienziato politico tedesco Carl Joachin Friedrich, autore di lavori fondamentali sul totalitarismo, aveva indirettamente contestato l’analisi di Arendt riferendosi criticamente a interpretazioni “essenzialiste“. Eppure, quella scoperta dell’essenza della pretesa totalitaria sull’uomo ebbe su di me una presa fortissima : “I campi di concentramento e di sterminio”, scriveva Arendt, “servono al regime totalitario, oltre che a sterminare, a compiere l’orrendo esperimento di (…) trasformare l’uomo in un oggetto”. Questa radicale messa a nudo dell’obiettivo totalitario costituì per me una chiave di lettura per gli scritti dei sopravvissuti, come Primo Levi ed Elie Wiesel. Ma quell’interpretazione mi guidò anche nella lettura di un testo meno conosciuto, “Il racconto di Peuw bambina cambogiana”, nel quale si ripercorreva l’annientamento e fisico della popolazione della Cambogia durante il regime di Pol Pot, nell’indifferenza dell’Occidente  e dei suoi intellettuali progressisti. In questi racconti quanto spiegato da Arendt  appare in tutta la sua tragicità: la riduzione dell’essere umano agli istinti primordiali, legati alla sopravvivenza fisica, con la perdita dei sentimenti considerati più umani, come l’amore e la protezione dei propri cari.
“Le origini del totalitarismo” mi preparò ad affrontare “La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme” (1963), e le violente polemiche che avevano accompagnato l’uscita del libro, scaturito dagli articoli scritti per il “New Yorker” in occasione del processo intentato dagli israeliani all’artefice della macchina che aveva condotto milioni di ebrei alla loro destinazione di morte, Adolf Eichmann. Lisi Non rimasi scandalizzata né dalla dura analisi del ruolo giocato dai capi delle comunità ebraiche nella macchina dello sterminio, né dalla ben più significativa interpretazione dell’uomo Eichmann.
In merito al primo punto, le osservazioni della studiosa erano in parte debitrici de “La distruzione degli Ebrei d’Europa” dello storico Raul Hilberg, che aveva messo in luce i meccanismi dello sterminio, mostrando omissioni, complicità e atti che avevano talvolta inceppato il meccanismo. D’altro canto, già in “Le origini del totalitarismo” l’ebrea Arendt aveva scritto parole forti sulle responsabilità ebraiche nello sviluppo dell’antisemitismo, anche se in nome di una disincantata lettura dei processi storici, non della volontà di addossare colpe alle vittime.
Quell’approccio meglio comprensibile attraverso il concetto di azione così come sviluppato in “The Human Condition” e inteso – ricorda Simona Forti in “Hannah Arendt tra filosofia e politica” – che rende possibile pensare l’uomo come un essere libero e non prigioniero della naturalità dell’eterno ciclo del nascere e morire. Nonché attraverso l’importanza attribuita in una fase del suo pensiero all’idea Kantiana della capacità dell’individuo di darsi leggi universali. Così si può interpretare l’attenzione rivolta all’acquiescenza dei responsabili delle comunità ebraiche : un’analisi non sempre adeguatamente corroborata, ma onesta nel ricercare le ragioni dell’efficace del processo dello sterminio, e una valutazione che non ogni scelta è obbligata, perché all’uomo è consentito agire – anche se a rischio della vita – seguendo ciò che giudica giusto (Forti ricorda come in Arendt il giudizio rappresenti un luogo di resistenza nei confronti dell’esistente che in tempi di emergenza può farsi azione).
Queste riflessioni ci rendono intelligibile anche la lettura che Hannah Arendt diede di Eichmann. Non un sadico o un mostro, ma un uomo mediocre che, collocato in un universo dove i principi della nostra civiltà erano stati sovvertiti, aveva rinunciato alla propria  capacità di giudizio, ponendo nell’obbedienza al Fuhrer la guida per i propri comportamenti e considerando l’ascolto della propria coscienza un atto di debolezza e una tentazione dalla quale rifuggire. Una realtà, questa, molto più sconvolgente e meno rassicurante di quella di un uomo che diviene mostro e può perciò essere concepito come altro da sé.
Vedere nel film di Margareth Von Trotta gli anni vissuti da Hannah Arendt durante il processo Eichmann e dopo, alle prese con tanti attacchi provenienti da più parti, è un’esperienza importante. Von Trotta ha restituito l’immagine di una donna dotata non solo di grande rigore e spessore intellettuale, ma anche di grande coraggio, capace di affrontare dubbi, dolorose rotture e sofferenze personali pur di non rinunciare a raccontare il mondo così come lo vedeva attraverso la propria mente. Per amore del mondo.

Sofia Ventura – L’Espresso -26 dicembre 2013

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