I bambini cresciuti negli anni ’90 hanno imparato a conoscere il significato della parola “guerra” attraverso le cruente immagini che venivano trasmesse dai tg nazionali della Jugoslavia.
Scene che raccontano di morte, sangue e
paura, città dilaniate e bambini in balia della precarietà che solo la guerra
sa cospargere nei luoghi in cui attecchisce: quelle le immagini che
quotidianamente ci tenevano compagnia, a pranzo e a cena, riducendo lo stomaco
a un groviglio di emozioni forti e lancinanti che riducevano notevolmente
l’appetito.
La Ex-Jugoslavia era una nazione
creata dopo l’occupazione tedesca durante la II Guerra Mondiale e costituita da
6 repubbliche e 2 provincie autonome: Croazia, Serbia, Bosnia ed Erzegovina,
Macedonia, Montenegro, Slovenia più le province serbe del Kosovo e di
Voivodina. Le popolazioni di questi stati erano molto diverse fra loro per
ideologia, religione, cultura e livello economico. Diversità che spesso
sfociavano in scontri e tensioni che venivano brutalmente repressi dal regime
comunista di Tito. Erano soprattutto la Croazia e la Slovenia, che erano
economicamente più avanzate, chiedevano a gran voce l’indipendenza dal resto
delle confederate. Dopo la morte di Tito, avvenuta nel 1980, iniziò un periodo
difficile per la Jugoslavia: l’indebitamento pubblico delle singole
repubbliche, unitamente alla inefficienza dei vari dirigenti, portarono subito
ad una farraginosa situazione economica. Oltre a ciò, riemersero i
nazionalismi, specialmente degli albanesi del Kosovo, acerrimi nemici dei
serbi.
Ben presto le repubbliche jugoslave si
prepararono ad approvare, ognuna per proprio conto, delle modifiche alle loro
Costituzioni, in modo da raggiungere ognuna la possibilità di avere dei loro
partiti e prepararsi per le proprie elezioni.
Con gli accordi di Dayton,
formalizzati a Parigi il 14 dicembre del 1995, fu messa la parola fine alle
sanguinose guerre civili jugoslave, decretando la dissoluzione della Jugoslavia e la nascita
degli stati indipendenti di Slovenia, Croazia, Bosnia ed Erzegovina, Serbia e
Montenegro (queste ultime due unite nella Federazione jugoslava, fino alla
definitiva separazione nel 2006). Dopo quarantasette anni finiva così la storia
della più grande nazione della penisola balcanica e di quella più multietnica
d’Europa, nata alla fine della Seconda guerra mondiale su iniziativa del maresciallo Tito, che ne
fece una dittatura di stampo comunista. La fine della guerra fredda e la
caduta dei regimi comunisti avevano messo in crisi l’unità slava, favorendo
l’ascesa di leadership nazionaliste che miravano all’autonomia politica delle
singole repubbliche federate. Le prime a raggiungerla furono Croazia e Slovenia
nel 1991. L’anno dopo ci provò anche la Bosnia Erzegovina con un referendum, che aveva
finito con lo spaccare il paese in due: da una parte le comunità musulmana e
croata, dall’altra i serbo bosniaci.
Il conflitto che ne derivò in tutta la
penisola provocò oltre 250mila vittime e milioni di sfollati, segnalandosi per
crimini efferati paragonabili a quelli compiuti dalla ferocia nazista. La
pagina più terribile fu scritta con il genocidio perpetrato nella città
di Srebrenica,
dove vennero aperti campi di concentramento per non-serbi (cui vennero limitati
i diritti civili) e furono distrutti i luoghi di culto musulmani. Non meno
cruento fu l’assedio della città di Sarajevo, in cui morirono 10mila persone.
L’intervento della Nato fu risolutivo per la fine delle ostilità e l’apertura
dei colloqui di pace concretizzatisi a Dayton.
Ciononostante lo scenario balcanico rimase
precario, al punto che un anno dopo scoppiò un violento conflitto in Kosovo, provincia della
Serbia cui il presidente Milosevic aveva revocato lo status di autonomia,
conclusosi nel 1999 con il riconoscimento dell’autonomia kosovara (trasformata
in indipendenza nel febbraio 2008) e l’arresto dello stesso Milosevic per
crimini contro l’umanità.
https://www.napolitan.it/2016/12/14/57482/guerra-in-jugoslavia/
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