Sergio Leone nacque il 3
gennaio del 1929 a Roma, figlio di Vincenzo, nome d'arte Roberto Roberti,
regista dell'epoca del cinema muto, autore di quello che viene considerato il
primo western italiano, "La vampira indiana" del 1913, e che Sergio
omaggerà firmando la prima pellicola della cosiddetta "trilogia del
dollaro" con lo pseudonimo di Bob Robertson.
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Sono bastati sette film a Sergio Leone per lasciare un’impronta
indelebile nella storia del cinema. Sette film per attraversare i generi,
distruggerli e reinterpretarli. Sette film per piegare la critica al racconto
popolare. Sette film per rapire il nostro sguardo e raccontarci
tutto. Il 3 gennaio 1929 nasceva a Roma Sergio Leone. E noi, oggi, lo ricordiamo.
“C’è mancato poco che non
nascessi in un cinema” – Figlio dell’attrice Bice Valcareggi e del regista Vincenzo Leone, in arte Roberto Roberti, il piccolo Sergio viene presto a contatto con il mondo
frequentato dai genitori. A portarlo per la prima volta su un set è anzi
proprio il padre, che nel 1941 gli assegna una piccola parte nel film La bocca sulla strada. Nonostante questa e altre
comparsate – figura persino fra i seminaristi tedeschi incontrati da Antonio e
dal piccolo Bruno in Ladri di biciclette (1948) di Vittorio De Sica -, tuttavia, Leone
capisce di non essere tagliato per la recitazione, sviluppando invece una
predilezione per la macchina da presa. Comincia così a formarsi come aiuto
regista, collabora a colossal americani del calibro di Quo vadis? (1951) o Ben-Hur (1959) e attende una chance da primo violino.
Opportunità che presto arriva.
Sandali e spade – Messosi in luce per aver
portato a termine le riprese de Gli ultimi giorni di Pompei (1959) sostituendo
l’ammalato Mario Bonnard, nel 1961 Leone ottiene la direzione de Il colosso di Rodi. Ascrivibile
al genere peplum – film di impianto mitologico e biblico – la pellicola non
sembra adattarsi per temi e ambientazioni all’immagine che abbiamo oggi del
cineasta romano. Eppure, sebbene ancora acerbo, l’esordio lascia già
intravedere quelle sfumature che andranno poi a comporne lo sguardo. Il cinema
inteso (anche) come intrattenimento, una marcata vicinanza agli oppressi, la
contaminazione politica e un realismo crudo e violento sono infatti elementi
che torneranno nella filmografia del nostro autore. Specie se ad annaffiarli,
come in questo caso, è un’abbondante dose d’ironia. Il film esce in sala, il
pubblico apprezza e il botteghino seppellisce le polemiche. Subito dopo aver
battuto il primo ciak, infatti, Leone aveva dovuto fare fronte
all’ammutinamento del suo protagonista, John Derek. Volto noto dei peplum, Derek semplicemente non
riteneva all’altezza del compito l’inesperto Sergio, pretendendo invece di
essere lui stesso a dirigere il lungometraggio. Furibondo per le bizze della
propria star, Leone – supportato dall’intera troupe e dal resto del cast – ne
aveva dunque chiesto la rimozione, ottenendola e scritturando al suo posto
“il Cary Grant dei poveri”: Rory Calhoun. Un’altra curiosità è legata
poi al fatto che Il colosso di Rodi rimane l’unica opera leoniana
non musicata da Ennio Morricone, storico compositore di Leone, di cui fu anche compagno di classe
alle elementari.
La trilogia del dollaro – Per un pungo di dollari (1964), Per qualche dollaro in più (1965) e Il buono, il brutto e il
cattivo (1968).
Tre film leggendari, tre pellicole che defibrillano un genere ormai al collasso
rivisitandolo con una ricetta del tutto nuova. Pur mal digerita dallo
stesso Leone, l’etichetta “spaghetti western” rende perfettamente l’idea di una rivoluzione in salsa italiana.
Nutrito dalla cultura delle narrazioni epiche, Leone intende i suoi pistoleri
come novelli eroi omerici. Interessato al mito e alla sua costruzione, avvia
dunque un’operazione che non arricchisce semplicemente il canone, ma lo
demolisce per rifondarlo. Nella Trilogia del dollaro i personaggi sono maschere in
cui bene e male convivono nello stesso respiro. Gli orizzonti si estendono
verso il confine con il Messico, dove la violenza si fa più barbara. I volti e i vestiti si
colorano di polvere e tabacco e alla faccia liscia di John Wayne si sostituisce il viso
barbuto di un Clint Eastwood monocorde e sino ad allora semi-sconosciuto. Protagonista senza
nome di tutte e tre le pellicole, “il biondo” è addobbato con un sarape e un
cappello da damerino. La bocca perennemente occupata da un sigaro. Campi
lunghissimi si alternano a primissimi piani che rimbalzano dagli occhi dei
fuorilegge alle fondine delle loro pistole. Le note di Morricone
acquistano un valore diegetico, mentre l’ironia è enfatizzata da battute che
diventano aforismi. Il risultato è qualcosa di mai visto prima. Tanto da
spingere Leone a firmare con uno pseudonimo il primo capitolo della
trilogia: Bob Robertson, un tributo al nome d’arte del padre, autore del primo
western italiano, La vampira indiana (1913). La conversione in
inglese del soprannome paterno è poi dovuta al timore che un film di cowboy
diretto da un romano non seduca il pubblico. Il successo di Per un pungo di dollari è però tale da rivelare al
mondo l’identità di Sergio Leone e da risvegliare le ire di Akira Kurosawa, che accusa il cineasta
di Trastevere di aver plagiato il
suo La
sfida del samurai (1961). Kurosawa vince la causa e a Leone non resta che concedere
una percentuale dei diritti.
La trilogia del tempo – Con C’era una volta il West (1968) Leone torna alle
origini del genere e alla lezione del maestro John Ford. A guidarlo sono il desiderio
e il dolore di sotterrare per sempre cappelli e pistole. Per farlo compone una
tra le più riuscite sinfonie visive della storia del cinema. La celebre scena
d’apertura bandisce infatti la parola dallo schermo, affidando all’immagine e
ai rumori ambientali il compito di dialogare con lo spettatore. Leone pare
dirigere un’orchestra fatta di gocce, vento e ronzii. Uno spartito che anticipa
una dilatazione temporale inedita, che inghiotte l’intera pellicola. L’opera si
tinge così di malinconia per un mondo destinato all’estinzione e, in qualche
modo, introduce la complessità politica di Giù la testa (1971). “Quando ero
giovane credevo in tre cose. Il marxismo, il potere redentore del cinema e la
dinamite. Oggi credo solo nella dinamite”, con queste premesse filosofiche il
cineasta romano approccia il lavoro che più di tutti testimonia la sua aderenza
alla lotta di classe e alla causa degli oppressi. Ambientato durante la Revolucion mexicana di Pancho Villa ed Emiliano Zapata, il lungometraggio si snoda
attorno all’incontro fra l’irlandese John Mallory e il peone Juan Miranda. Idealista e invaghito della
rivoluzione il primo, disilluso e interessato al profitto il secondo, i due
instaurano un dialogo fra maschere sconfitte. Di fatto, una lucida analisi
della società contemporanea filtrata attraverso la lente del genere.
Uno straordinario racconto crepuscolare che Sergio
Leone tenta, tuttavia, di affidare a Sam Peckinpah, desiderando invece
concentrarsi su un’altro progetto: C’era una volta in America. Cullato per oltre dieci anni,
questo il film rappresenta per Leone il coronamento della propria poetica.
Sublimando l’anonima biografia criminale di Harry Grey (The Hoods), il regista italiano compone
un affresco di vita e di morte, una ballata americana in cui confluiscono però
i ricordi del Sergio bambino e della gioventù spesa lungo la scalinata di Viale Glorioso. La memoria, il tempo e
l’infanzia. Tre ossessioni leoniane ricorrenti nell’intero arco della sua
filmografia, vengono qui declinate in un racconto universale. E ancora una
volta torna il mito, con Noodles e la malavita newyorkese a sostituirsi a Omero e ai duelli a
ritmo di carillon. Un film-romanzo, più di 40
anni di sogni, amicizie e tradimenti sezionati lungo tre piani temporali
distinti, che si alternano al ritmo di madeleine proustiane. O, almeno, che avrebbero dovuto farlo. Il 17
febbraio 1984, infatti, in occasione dell’anteprima mondiale del film, i
produttori decidono di presentare una versione alternativa. I 229 minuti
approvati dal regista vengono ridotti a 139, mentre il meccanismo a flashback viene completamente
smontato in favore di una narrazione cronologica degli eventi. Il risultato è
catastrofico, la pellicola è subissata di critiche. Per Sergio Leone il colpo è
durissimo. Neppure avvisato di quelle modifiche, ne esce distrutto.
L’entusiasmo che lo accompagnava ogni volta che parlava di C’era una volta in America lascia spazio
all’amarezza. Una nuova edizione rimediò, ma non sono pochi ancora oggi a
scommettere che fu quello il colpo che mise in ginocchio il cuore del regista.
Quello stesso cuore che lo tradì il 30 aprile 1989, lasciandoci con sette film
e un mare di ricordi.
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