È schietto, semplice, efficace. Ma non è un bel libro. Poco importa: un
classico lo diventa per la presa che ha. E Orwell aveva previsto il nostro
tempo: nessuno legge, tutti scrivono (senza niente da dire)
Settant’anni
fa, sulla soglia della morte, lo scrittore consegna il romanzo più discusso,
citato, contraffatto del Novecento. “Dimesso alla fine del luglio 1948 e
ancora indebolito dalle alte dosi di streptomicina che gli hanno provocato devastanti
effetti collaterali, torna ostinatamente sull’isola e ingaggia una lotta contro
il tempo (a Hairmyres hanno dato un nome alla malattia che lo tormenta da anni:
tubercolosi polmonare). Lavora con intensità maniacale e dattiloscrive da solo
una copia che in effetti getterebbe nello sconforto qualunque segretaria.
Quando a dicembre invia il romanzo a Warburg è perfino troppo debole per
muoversi” (Guido Bulla).
La storia
di 1984, in effetti, sembra il simbolo della
scrittura. La scrittura pretende la vita dello scrittore – solo in questo modo,
misteriosamente, si attinge l’autenticità. George Orwell comincia a
scrivere 1984, all’epoca ancora “The Last Man in
Europe”, nel maggio del 1946. Per scrivere il grande romanzo contro il
totalitarismo, Orwell ha bisogno di isolarsi, ha bisogno dell’isolamento. Lo
scrittore si trasferisce a Jura, nelle Ebridi, Scozia, “che ha trasformato in
una piccola utopia personale”.
Come si
sa, 1984 s’intitola così alterando le ultime cifre
dell’anno in cui Orwell, scrivendo “in condizioni disastrose… come una tragica
corsa contro il tempo” (Bulla), termina il romanzo, il 1948. Il romanzo, però, è pubblico nel
giugno del 1949. Il successo è immediato. Tra il gennaio e il maggio del 1950
il romanzo è pubblicato a puntate su ‘Il Mondo’ nella traduzione di Gabriele
Bandini, poi usata per il volume Mondadori. Orwell vive, da malato, i primi
clamori intorno al libro: muore il 21 gennaio 1950. “Se qualcuno dovesse
suggerirlo, desidero che dopo la mia morte non mi vengano dedicate funzioni
commemorative e che di me non sia scritta alcuna biografia”, fa scrivere, tre
giorni prima di morire.
Per
onorare l’anniversario, l’editore Gallimard pubblica una nuova traduzione di 1984, affidando il lavoro a Josée Kamoun, esperta
anglista (ha
tradotto, tra i tanti, Philip Roth, Virginia Woolf, William Faulkner, Jack
Kerouac, Bernard Malamud…). “Ho assecondato il ritmo originale della frase, che
va dritto al punto. Il ritmo di un autore è fondamentale… un traduttore non
traduce parole, non traduce frasi, traduce effetti”, ha detto la traduttrice.
Il punto,
70 anni dopo, è questo. 1984 non è un bel libro; è più bella – e tragica – la storia della scrittura
del libro che non il libro in sé. Eppure. Il libro è schietto, semplice, efficace: lo dimostra
l’idea del Grande Fratello, che frutta ancora. Ma il dato estetico non coincide
con i dati di vendita. 1984 è
un libro modesto. Leggibile – per questo lo si dà in pasto agli studenti di
ogni ordine e intelligenza – ma modesto. In effetti, è citato più dai politici
– per far dire al romanzo ciò che pare a loro, con variopinta esegesi – che dai
letterati.
Settant’anni fa, sulla soglia della
morte, lo scrittore consegna il romanzo più discusso, citato, contraffatto del
Novecento. “Dimesso
alla fine del luglio 1948 e ancora indebolito dalle alte dosi di streptomicina
che gli hanno provocato devastanti effetti collaterali, torna ostinatamente
sull’isola e ingaggia una lotta contro il tempo (a Hairmyres hanno dato un nome
alla malattia che lo tormenta da anni: tubercolosi polmonare). Lavora con
intensità maniacale e dattiloscrive da solo una copia che in effetti getterebbe
nello sconforto qualunque segretaria. Quando a dicembre invia il romanzo a
Warburg è perfino troppo debole per muoversi” (Guido Bulla).
La storia di 1984, in effetti, sembra il simbolo della
scrittura. La scrittura pretende la vita dello scrittore – solo in questo modo,
misteriosamente, si attinge l’autenticità. George Orwell comincia a
scrivere 1984, all’epoca ancora “The Last Man in Europe”, nel
maggio del 1946. Per scrivere il grande romanzo contro il totalitarismo, Orwell
ha bisogno di isolarsi, ha bisogno dell’isolamento. Lo scrittore si trasferisce
a Jura, nelle Ebridi, Scozia, “che ha trasformato in una piccola utopia
personale”.
Come si sa, 1984 s’intitola così alterando le ultime
cifre dell’anno in cui Orwell, scrivendo “in condizioni disastrose… come una
tragica corsa contro il tempo” (Bulla), termina il romanzo, il 1948. Il romanzo, però, è pubblico nel
giugno del 1949. Il successo è immediato. Tra il gennaio e il maggio del 1950
il romanzo è pubblicato a puntate su ‘Il Mondo’ nella traduzione di Gabriele
Bandini, poi usata per il volume Mondadori. Orwell vive, da malato, i primi
clamori intorno al libro: muore il 21 gennaio 1950. “Se qualcuno dovesse
suggerirlo, desidero che dopo la mia morte non mi vengano dedicate funzioni
commemorative e che di me non sia scritta alcuna biografia”, fa scrivere, tre
giorni prima di morire.
Per onorare l’anniversario, l’editore
Gallimard pubblica una nuova
traduzione di 1984, affidando il lavoro a Josée Kamoun,
esperta anglista (ha
tradotto, tra i tanti, Philip Roth, Virginia Woolf, William Faulkner, Jack
Kerouac, Bernard Malamud…). “Ho assecondato il ritmo originale della frase, che
va dritto al punto. Il ritmo di un autore è fondamentale… un traduttore non traduce
parole, non traduce frasi, traduce effetti”, ha detto la traduttrice.
Il punto, 70 anni dopo, è questo. 1984 non è un bel libro; è più bella – e
tragica – la storia della scrittura del libro che non il libro in sé. Eppure. Il libro è schietto, semplice,
efficace: lo dimostra l’idea del Grande Fratello, che frutta ancora. Ma il dato
estetico non coincide con i dati di vendita. 1984 è un libro
modesto. Leggibile – per questo lo si dà in pasto agli studenti di ogni ordine
e intelligenza – ma modesto. In effetti, è citato più dai politici – per far
dire al romanzo ciò che pare a loro, con variopinta esegesi – che dai
letterati.
Poco importa: un ‘classico’ è tale per la sua ‘presa’ non tanto per
la sua forma impeccabile (altrimenti adotteremmo La morte di
Virgilio di Hermann Broch come favola per la buona notte ed avremmo
eletto Marcel Proust a re del mondo).
Recentemente, dialogando con Siobhan Nash-Marshall, che insegna filosofia a
New York, ha scritto un libro decisivo sul genocidio armeno, The Sins
of the Fathers, ed è ritenuta la nuova Hannah Arendt. Lei mi dice. “C’è
una fioritura prodigiosa della letteratura distopica, non vedi? Sono tutti
figliocci di Orwell. Ma cosa fa George Orwell? Ci dice che c’è un problema. Questo
però lo sappiamo da sempre: l’attuale mondo della post-verità è stato
ampiamente denunciato lungo tutto il XX secolo. Ora abbiamo bisogno di altro,
non più di distopie ma di risposte”. O di altre domande, dico io.
C’è però una cosa formidabile in 1984, qualcosa che riguarda
ancora la scrittura. Winston Smith scrive. Compie il gesto vietato,
perché la scrittura, di per sé, induce l’uomo a scoprire se stesso, incita a
una rivolta. “Era un solitario fantasma che proclamava una verità che nessuno
avrebbe mai udita. Ma per tutto il tempo impiegato a proclamarla, in un qualche
misterioso modo la continuità non sarebbe stata interrotta. Non era
col farsi udire, ma col resistere alla stupidità che si sarebbe potuto portare
innanzi la propria eredità d’uomo”. La scrittura è una attività vietata, ma la
scrittura è l’unico atto che garantisce la continuità del
genere umano. Non conta se uno ha la verità – chi l’ha? – e se lo scritto viene
recepito: il fatto di scrivere garantisce la sopravvivenza del genere umano.
Che visione devota ed eroica.
Il primo atto di un regime è reprimere la scrittura, bandire i libri,
blandire i cuori, relegare la letteratura in termini di utilità e di
mercato. Siamo in un tempo di analfabetizzazione letteraria: pochi
leggono, pochissimi leggono roba buona, tutti scrivono ogni giorno sui social,
ma nessuno scrive davvero. Il pensiero è sostituito dal sentimento,
la mente dall’intestino. Chi lavora con i ventenni conosce la fatica
che questi hanno nel dare vita, su carta, a un ragionamento logico. Non sanno
più raccontare una storia. Cercano di far ‘vedere’ – usando sintesi strampalate
– non di far ‘capire’: sono alieni alla profondità in dote al verbo. Ogni
riflessione conseguente (il Grande Fratello come grande editor dell’era
presente) la lascio volentieri a voi. (d.b.).
https://www.linkiesta.it/it/article/2018/08/09/dopo-70-anni-tocca-dirlo-1984-di-george-orwell-e-uno-dei-libri-piu-sop/39080/
- http://www.pangea.news/ecco-perche-1984-che-compie-70-anni-e-un-brutto-libro-nonostante-le-intenzioni-dellauto
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